Genitori “fotocopiatrice”

Le paure della morte e della solitudine (che derivano dall’aver iniziato a vivere esperienze nello spazio-tempo) sono irrisolte e portano all’incapacità di evolvere , di cambiare, e a fare dei propri figli fotocopie di se stessi ma con il compito, paradossale, che riescano a fare, nella vita, cose migliori di quelle di cui loro sono stati capaci. Ma una fotocopia può solo ripetere, più o meno fedelmente, il suo originale: ciò che è già stato vissuto dai suoi genitori, con forse piccole varianti, quelle introdotte dall’ambiente esterno che nel frattempo è cambiato. Questi genitori impongono ai figli le proprie visioni della Realtà, le proprie credenze, le proprie verità che spesso sono molto diverse tra un genitore e l’altro producendo nella mente del figlio conflitti ancora maggiori dei loro. Li trattano come una loro proprietà e se fanno qualcosa contrario alle loro credenze, li puniscono o li insultano. Gli impediscono di introdurre cambiamenti , si rivolgono a loro con negazioni e affermazioni limitanti, conflittuali, fuorvianti o inutili ma sono pronti a stupirsi se si ritrovano ad avere un figlio socialmente disadattato.

(dal bellissimo libro “Io scelgo io voglio io sono” di Fabio Marchesi)

Le persone indecise non possono essere felici

Il primo riferimento degli indecisi si chiama Senso Comune, altri riferimenti sono le persone che hanno eletto come propri leader. “Agganciano” il loro cordone ombelicale simbolico a esperti o scienziati degni della massima fiducia, a genitori, a opinion leader, a medici, a guaritori, a politici, a uomini di Chiesa, ad amici , a guru, a cartomanti, ecc. a chiunque possano delegare la responsabilità delle loro scelte. Sono persoen che proprio per questo loro atteggiamento vivono infelicemente o comunque a un livello di felicità “normale” decisamente inferiore a quello che potrebbero esprimere. Le loro ambizioni emotive sono autolimitate alle serenità, un concetto tristemente sottotono di felicità molto in voga tra chi è normalmente triste per gli auguri natalizi.

Gli indecisi sono distributori automatici di aspettative secondo questo modello :” se fai quello che mi aspetto da te sarò finalmente felice e te ne sarò grato, altrimenti sarò infelice, e sarà solo per colpa tua”. La loro motivazione inconsapevole potrebbe essere questa:” ho dei profondi dubbi e ho deciso che sono incapace di trovare risposte da solo (anche perché se sbagliassi mi dovrei poi sentire in colpa) , tu mi servi per evitare questa possibilità, mi fiderò e farò ciò che tu mi hai suggerito (o consigliato, o detto o ordinato) di fare così, se soffrirò o fallirò, potrò dare ogni colpa a te e potrò iniziare a sentirmi una vittima, disprezzandoti”.

Mi ritrovo perfettamente, in alcuni frangenti (non in tutti , per fortuna) con questa descrizione. 

Chi evita di fare scelte autonome illudendosi di evitare sensi di colpa si impedisce in realtà di poter essere felice. Gli indecisi credono nel caso, nella fortuna, nella sfortuna o a qualsiasi influenza esterna possa permettere loro di togliersi la responsabilità delle proprie scelte. Hanno rinunciato ad esercitare il loro potere su se stessi e la Realtà quando hanno rinunciato a fare scelte autonome e consapevoli.

Per fortuna, e lo dico con piacere, non mi è mai accaduto quanto descritto nel libro: “se oggi provi disprezzo per qualcuno che in passato hai ammirato o ritenuto di amare, significa che lo hai usato per affidargli tue responsabilità che hai voluto evitare di assumerti”. 

Realtà e modelli mentali

Se hai sempre creduto che è quello che succede nella Realtà, là fuori, che ti può rendere felice o triste, inizia a considerare la possibilità che, invece, il fatto che tu sia felice o triste dipende soprattutto da quello che c’è dentro di te , nella tua mente e nei tuoi Modelli mentali.

L’origine di ogni infelicità è in paure inopportune e false credenze limitanti entrate a far parte dei propri Modelli mentali.

(dal libro “Io scelgo , io voglio !, io sono” di Fabio Marchesi)

 

La costruzione delle proprie credenze

Questo aspetto della mente è estremamente delicato ma, se sfruttato consapevolmente e vantaggioamente, è anche un potentissimo strumento conc ui poter evolvere nella Gioia perchè può permettere a chiunque di costruirsi o ricostruirsi proprie credenze/verità senza dove sempre cercare l’approvazione degli altri. Senza dipendere da nessun altro. Dalle proprie credenze/verità nel presente dipendono le proprie emozioni , i propri giudizi e pensieri, ma anche le epserienze che si vivono e come le si vive.EINSTEIN by ESCHER (my artistic fake!) Roberto Rizzato via Compfight

Einstein sosteneva che, piuttosto che la conoscenza, è l’immaginazione ad avere valore. La conoscenza ha molto meno valore dell’immaginazione proprio per quanto appena detto , ma può anche rendere stupidi e limitati. Succede quando si arriva a ritenere verità solo le informazioni ricevute da altri nel proprio passato. Si può infatti divenire incapaci di accettare nuove informazioni solo perchè sono diverse da quelle che si hanno già e che si ritengono verità. [..] E’ soprattutto la maggiore difficoltà ad accettare cambiamenti nelle proprie credenze che fa diventare “anziana” una persona.

(dal libro “Io scelgo io voglio io sono ” di Fabio Marchesi)

La nostra Realtà

L’esito delle proprie associazioni mentali inconsapevoli si manifesta alla mente consapevole nella forma di emozioni. Quando una cellula riceve stimolazioni esterne che corrispondono a elementi specifici del proprio codice genetico, rilascia le relative sostanze che condizionano le emozioni che vengono provate. Il concetto a me molto caro di felicità secondo il quale una persona è felice quando vive esperienze in sintonia con la sua natura vale anche per ogni cellula del corpo . […] Ogni propria emozione , come la felicità, l’entusiasmo o la paura, corrisponde a un proprio profilo biochimico , una sorta di cocktail di sostanze chimiche verso le quali una persona può anche sviluppare una forma di dipendenza.
La paura, per esempio, è l’effetto di un profilo biochimico caratterizzato da sostanze che sono anche stimolanti e anestetizzanti perchè preparano e predispongono il corpo all’attacco o alla fuga . Ma se ciò di cui si ha paura è solo frutto della propria immaginazione, utilizzata magari e inconsapevolmente apposta in modo pessimistico, senza che vi sia alcune reale minaccia (come una belva o nemico feroce) e si è in contesti sociali e ambientali che suggeriscono di evitare di attaccare o scappare fisicamente, quelle sostanze chimiche anzichè essere utilizzate e metabolizzate rimangono in circolo, anche per molto tempo, e possono portare all’assuefazione. In questo caso una persona potrà allora incominciare , e continuare a farlo inconsapevolmente apposta, a produrre pensieri e situazioni conflittuali che provocano in lei paura solo per far produrre al suo corpo le sostanze chimiche alle quali si è assuefatta. Chi si è abituato a vivere in un clima di paura può produrre continuamente conflitti solo per vivere le stesse sensazioni a cui si è abituato / assuefatto , senza magari riuscire ad accorgersi che il clima della Realtà in cui vive è cambiato o è profondamente diverso da quello a cui era abituato/assuefatto e, soprattutto, che potrebbe cambiare in qualsiasi momento il suo approccio mentale verso la Realtà.

(dal libro “Io scelgo, io voglio, io sono ” che sto leggendo in questo periodo, davvero molto interessante).

Le sette tappe del dolore

dal libro “Mille giorni di te e di me” di Gabriele Fortino, che racconta in un libro appassionante (e terribile) la sua esperienza con la sclerosi multipla e anche sul sito http://smisurataforza.ilcannocchiale.it/2010/06/15/le_7_fasi_di_elaborazione_del.html

Gli psicologi dicono che esistono 7 tappe del dolore. Credo di averle vissute tutte.

Shock: il 7 Novembre 2007, alle ore 19:25, quando mi viene diagnosticata la malattia. Momento clou: poche ore dopo, quando non riesco a trattenere una brevissima crisi di pianto, nel letto.

Rifiuto: durante il primo ricovero ospedaliero. Mi sento avulso, distaccato. In fondo sto bene. Leggo, gioco con il Nintendo DS, non vedo l’ora di uscire. (dall’8 al 13 Novembre). Non uso mai il termine “malattia”, parlo piuttosto di “problema”. Ancora oggi sono restio nel farlo.

Senso di colpa: durante il ricovero mi sento in colpa nei confronti dei miei genitori. Mi dispiace vederli così preoccupati. Mi sembra di non attivarmi abbastanza, quindi prenoto visite, parlo con l’AISM, leggo, stampo, mi abbono a pubblicazioni, consulto siti internet e forum (primo semestre del 2008).

Paura: paura del futuro. E soprattutto paura di finire su una sedia a rotelle. Paura di perdere l’indipendenza e la vitalità. Non accetto l’idea, ne sono letteralmente terrorizzato. La paura arriva a tal punto che (solo ora che ho SUPERATO questa fase mi rendo conto di quanto sia stato ridicolo) dal 5 Gennaio 2009 compilo una “bucket list” delle cose che vorrei fare prima di morire. Pensieri quasi patetici, d’accordo, ma questa quinta fase è stata piuttosto lunga e tormentata.

Rabbia: nei confronti dei medici della mia città. Comincio ad essere intollerante. Comincio a pensare ad altre strade da percorrere, e colgo la palla al balzo quando mi parlano del San Raffaele di Milano (23 Giugno 2009). Faccio le visite di controllo malvolentieri.

Depressione: il 3 Ottobre 2009 scrivo: “mi assale la voglia di disinteressarmi di tutto”. Non è un semplice momento di sconforto, ci penso seriamente. Mi vedo solo (anche se NON LO SONO, non lo sono mai stato) e in un tunnel senza via d’uscita. Stanco e malato.

Accettazione: l’ultima fase, forse non ancora terminata del tutto. La dato Marzo-Aprile 2010, e coincide con il ricovero al San Raffaele. Prendo coscienza della mia malattia. Parlo con altre persone, e ci facciamo coraggio a vicenda. Sono a stretto contatto con i malati, assorbo le loro sofferenze e trasmetto le mie. Mi sento fortunato, in fondo sto bene e faccio una vita quasi normale.

Gli psicologi hanno ragione, ci sono 7 fasi di elaborazione del dolore, ed io le ho vissute tutte, dalla prima all’ultima, in ordine cronologico.

Il primo bisogno emozionale

Come bisogna reagire a quelle che sono possibili minacce e pericoli? Perché alcuni eventi o interazioni con gli altri ci fan­no piombare nella Zona di negatività? Pensateci bene, non ci si rende quasi mai conto del processo che si sta mettendo in moto dentro di noi. Anche quando cominciamo a capta­re l’insorgere di emozioni negative, di solito ci sforziamo di ignorarle o di dare la colpa a qualcun altro piuttosto che pen­sare a cosa ci ha condotto a tanto.

E ancora, poiché il male è più forte del bene, gli stimoli negativi lasciano solchi profondi nella memoria. Quando chiediamo ai nostri clienti di ricordare una minaccia re­cente, generalmente nessuno ha particolari difficoltà e col passare degli anni abbiamo raccolto migliaia di esempi. Nella stragrande maggioranza dei casi è possibile ricon­durre le origini della minaccia alla sensazione di essere sottovalutati o sminuiti da parole o comportamenti altrui. Il primo bisogno emozionale è sentirsi stimati e al sicuro: le sfide rivolte al nostro senso di valore personale di solito provocano l’effetto contrario, facendoci sentire svalutati e insicuri, a disagio nel migliore dei casi, insopportabili nel peggiore.

James Gilligan, professore di psichiatria alla Università della Pennsylvania ha studiato il fenomeno della violenza per quarant’anni. «Mi stupisce la frequenza con cui ricevo la stes­sa risposta da prigionieri o pazienti psichiatrici alla domanda: “Perché avete assalito o ucciso le vostre vittime?”.»4 «Ogni volta mi sento dire: “Perché mi hanno mancato di rispetto”.» Lo psichiatra ha scoperto che il motivo che spesso innesca una rapina a mano armata è proprio il desiderio di ottenere rispetto piuttosto che denaro. «Di volta in volta chi aveva commesso tali crimini ripeteva: “Non mi hanno mai rispettato così tanto come quando ho puntato la pistola in faccia a qualcuno”.»

Gilligan ci ha raccontato la storia di un prigioniero appa­rentemente incontrollabile. Continuava ad assalire le guardie nonostante le severe punizioni, tanto che fu messo in isola­mento. Ma anche così, non appena la porta si apriva, passava all’attacco. A quel punto fu chiamato Gilligan. «Cosa desi­deri talmente tanto da essere disposto a rinunciare a tutto il resto per ottenerlo?» Il prigioniero, che di solito si esprimeva in maniera confusa e poco comprensibile, si alzò e rispose al­lo psichiatra con straordinaria chiarezza: «Orgoglio, dignità, autostima». Quindi aggiunse: «E ucciderei per averli. Senza orgoglio non hai niente».

Questo bisogno di essere rispettati è fondamentale per la sopravvivenza. Anche Elijah Anderson, sociologo di Yale, ha trascorso molti anni a studiare il fenomeno della violenza e in particolare quello che chiama il «codice della strada» delle periferie più degradate, dove le possibilità di scalata sociale sono scarse se non nulle.5

«Tutto si basa sul rispetto» scrive Anderson «definito a grandi linee come l’essere trattati bene… il rispetto è una cosa che si conquista con molta fatica, si può perdere da un mo­mento all’altro e quindi bisogna continuamente stare all’er­ta.» Un articolo del «codice della strada» recita: «Se qualcu­no vi manca di rispetto, dategli una bella raddrizzata, senza farvi intimidire».

Il risultato è uno solo: sopravvive solo il più forte. «Una persona può guadagnare importanza solo se riesce a schiac­ciarne un’altra. Non si deve avere rispetto di nessuno, tutti provano a ottenere più considerazione possibile della poca a disposizione.» Facendo eco all’esperienza di Gilligan con il prigioniero violento, Anderson ha scoperto che «molti ragaz­zi dei quartieri più umili desiderano a tal punto il rispetto da rischiare la vita per ottenerlo e conservarlo».

I dirigenti con cui abbiamo lavorato hanno sicuramente più modo dei ragazzi cresciuti in strada di guadagnarsi il rispetto degli altri. Ma anche per loro sentirsi apprezzati non è meno vitale e dopotutto, se non sentiamo dentro di noi di valere qualcosa, chi siamo? Per quanto non vo­gliamo essere influenzati dal giudizio degli altri, il valore che ci attribuiamo è profondamente influenzato dai giudizi esterni. «Vogliamo che approvino la nostra esistenza, che ci prendano in considerazione, che reagiscano alle nostre azioni», spiega William Irvine nell’opera dal provocatorio titolo Del desiderio. Che cosa vogliamo e perché.** «Voglia­mo che ci amino o che almeno, se non ci amano, che ci am­mirino e anche se non ci ammirano, cerchiamo il rispetto o il riconoscimento.» O, come sostiene Daniel Goleman: «Le minacce alla nostra integrità sono molto sentite a livello biologico, quasi quanto quelle alla sopravvivenza».7

Più di qualsiasi altro tipo di stress, la sensazione di essere criticati sembra esigere il dazio maggiore a livello sia fisico sia mentale. Analizzando 208 studi relativi allo stress le ri­cercatrici Margaret Kemeny e Sally Dickerson scoprirono che l’aumento maggiore di cortisolo – le risposte attacca o fuggi più estreme – viene innescato dalle «minacce all’io so­ciale o all’approvazione, all’autostima e al proprio status». Una fonte di stress come un allarme o una sveglia impazzita può essere ovviamente scocciante, ma provoca una risposta tutto sommato blanda. Quando ci si imbatte in fastidi del genere il livello di cortisolo aumenta, ma rientra nei limi­ti entro una quarantina di minuti. Al contrario le minacce all’autostima causano un innalzamento più significativo del cortisolo, che rimane in circolo per più di un’ora. Questo spiega perché le critiche che ci vengono rivolte, anche quel­le più «costruttive», non sempre servono e anzi sono spesso controproducenti. Per accettare realmente e analizzare dei pareri critici, questi devono essere avanzati da persone di cui ci fidiamo e che tengono davvero a noi. Siamo molto meno propensi ad ascoltare chi ci dice semplicemente «hai sbagliato» rispetto a un consiglio del tipo: «Fino a ora sei andato bene, ma penso che per andare oltre dovresti miglio­rarti sotto questo aspetto».

Da un’altra analisi, Baumeister e il collega Mark Leary conclusero che quella di «appartenenza» è una delle princi­pali motivazioni umane. Abraham Maslow coniò per primo questo termine negli anni Sessanta, collocandolo al secondo posto, subito dopo la sicurezza, nella gerarchia dei biso­gni. Baumeister e Leary cercarono allora prove empiriche .1 riconferma di questa teoria. «Compiamo gran parte delle nzioni umane nel tentativo di soddisfare il bisogno di appar­tenenza», conclusero dopo aver esaminato decine di studi.8 «Provare un senso di appartenenza è fondamentale, al pari del cibo», o, come sosteneva Matthew Lieberman, neuroscienziato alla Università della California di Los Angeles: «Per un mammifero, ricevere cure e attenzioni è necessario per la sopravvivenza».

Voler instaurare rapporti positivi con gli altri sottoli­nea ancora di più l’importanza del nostro volerci sentire al sicuro, una condizione fondamentale anche per la nostra efficienza. Più il nostro valore personale è a rischio, più consumiamo energia nel tentativo di difenderlo, meno ne rimarrà per essere efficienti in quello che facciamo. Una minaccia è un campanello d’allarme che mette in guardia da potenziali pericoli e che, sempre se prendiamo l’esem­pio dei nostri clienti, ha sempre a che fare con la sensazione ili essere sottovalutati. Qui di seguito riportiamo la lista delle minacce più temute:

  • Sentirsi rivolgere parole di accondiscendenza o poco ri­spettose
  • Essere trattati ingiustamente
  • Non sentirsi apprezzati
  • Non essere ascoltati
  • Essere derubati del merito di un lavoro svolto
  • Essere lasciati in attesa
  • Mancanza di interesse verso un lavoro che state coordi­nando
  • Sentirsi criticati o accusati
  • Avere scadenze impossibili
  • Avere a che fare con persone che si credono chissà chi

(dal libro “Non si può lavorare  così” di Tony Schwartz che ho terminato di leggere l’estate scorsa, ma che è sempre utile)

Amare

Pensavo che il mio amore fosse strabordato dal tempo della nostra storia. Sono stato convinto, fino a poco tempo fa, di averla amata in silenzio anche in questi due anni che non era più con me. Poi ho capito che non la amavo semplicemente perchè non ero in grado di farlo. Perchè io sono sempre stato una persona distaccata. Non ho mai provato veramente l’amore, non facevo altro che immedesimarmi nelle emozioni altrui , come un attore fa con un personaggio . Ho sempre pianto al cinema, o vedendo un cane che zoppica , o per un lutto, o per le disgrazie sentite al telegiornale. Forse è tipico di chi non sa amare veramente.
Il mio amore in realtà era una recita. Sentita, ma comunque una recita . E non mi accorgevo nemmeno di farlo. Non facevo finta di amare con lo scopo di ingannare. Non le ho detto “ti amo” sapendo che non era vero. Anch’io ero tradito da me stesso, anch’io pensavo di amarla veramente. E nei tre anni passati insieme credevo di essermi innamorato almeno due o tre volte.  Erano queste le mie convinzioni sbagliate, quelle che lei mi ha insegnato a scoprire  e a vedere. Perchè aveva ragione quando diceva che non sapevo amare”[…]
“Non ti do nessuna colpa, Lorenzo, tu sei così. Sono io che ho sbagliato. Lo so, ho pensato che con me avresti potuto anche imparare ad amare. Invece non ne sei ancora capace se non per brevi istanti. Tu ti adatti, questa è la tua massima espressione d’amore. Perchè pensi solo ai tuoi gesti , ti concentri su quello che fai, su quello a cui rinunci. E pensi che tutto ciò sia una prova d’amore. Tu le rinunce degli altri nemmeno le vedi. Credi che sia facile, stare con te ? Tu pensi di sì, perchè non disturbi, non chiedi aiuto, non ti arrabbi mai, non litighi. Invece sappi che starti accanto è faticoso. Non sai quanti pensieri, quante attese , quante lacrime e pianti. Tutti in silenzio. Non ti ho mai detto niente per non farti del male e perchè conoscendoti una persona impara a non dirti nulla, perchè sa già la tua risposta:”Se è faticoso stare con me, perchè non vai via ?”. Tu hai schiacciato tutte le emozioni. Per questo non ti arrabbi , non perchè sei equilibrato , ma semplicemente perchè hai represso le emozioni: via l’amore, via la rabbia , tutto viene nascosto nel tuo lavoro. Lo sappiamo tutti che il tuo lavoro è importante, però per noi due è stato anche motivo di infiniti no. Cene non fatte, film non visti, concerti, passeggiate, fine settimana saltati all’ultimo momento….tutto eliminato, schiacciato, cancellato. Come se lavorassi solo tu al mondo. Sei così preso da te stesso che nemmeno ti accorgi di tutto quello che una persona sopporta per stare con te . Guarda adesso, ad esempio: me ne sto andando , ti sto lasciando e questa volta per sempre e tu non dici nulla come se la cosa non ti toccasse minimamente. Dimmi che sono un’egoista, una stronza che ti lascia invece di rimanere e accettarti come sei. Grida , incazzati, fai qualcosa, invece di restare lì impalato….”. Era ferma sulla porta di casa con gli occhi lucidi . Mi stava implorando di non farla andare via . Questo mi stava chiedendo. Io sono riuscito solamente a dire :” Cosa vuoi che ti dica ? Hai ragione e ti capisco.”

dal bellissimo “Il tempo che vorrei ” di Fabio Volo, che in tante parti assomiglia a spezzoni della mia vita.

Veronica Pivetti , la depressione e il suo cane

“Sono felice di stare in quella nutrita schiera di persone che ha con il proprio animale  un rapporto che molti rompicoglioni definiscono innaturale, e che, invece, per noi malati è vitale.
Io sono una di quelle che dorme col cane, mangia col cane, fa leccare al cane il piatto con il sugo della pasta, disprezza i negozi in cui i cani non possono entrare, cancella per sempre le persone che non amano i cani, gioca col cane, guarda il suo cane che dorme e si commuove, e tende a parlare di cani perchè sa per certo che è un argomento cento volte più interessante di tutte le chiacchiere inutili e spesso dannose che si fanno per ammazzare il tempo”. […]
“Chiunque creda che l’antidepressivo sia la scorciatoia per raggiungere la felicità, crede sbagliato.  L’antidepressivo toglie l’abisso ma non ti regala il sorriso. L’antidepressivo non ti dà il buonumore, allevia solo la disperazione. E dico solo perchè il lavoro che ci aspetta dopo è immenso.
Il recupero della serenità, della felicità, del piacere di vivere è qualcosa a cui dobbiamo dedicare tutte le nostre energie e le nostre attenzioni e, tanto per cambiare, molto, molto tempo.
Una volta che , grazie agli psicofarmaci, ci siamo liberati del male oscuro, ci aspetta un percorso delicato e faticoso verso il recupero di noi stessi.
E l’abuso di antidepressivi impedisce tutto queto.
Le magiche pastigliette che mi avevano impedito di buttarmi dalla finestra quando non vedevo altra soluzione alla mia vita piena di dolore, esercitavano, ahimé , anche una funzione estremamente frustrante sul mio io e mi impedivano di rialzare la testa.”

(dal libro “Ho smesso di piangere” di Veronica Pivetti, non un capolavoro di scrittura ma un libro prezioso perchè racconta l’esperienza di una delle malattie più difficili da raccontare, e che sono stato felice di acquistare).

 

La farmacia della famiglia Sacconi (della serie: per fortuna tutto questo è finito!)

In Farmindustria il personaggio più interessante da raccontare è il direttore generale Enrica Giorgetti , nominata in quell’incarico dopo esser stata direttore dei rapporti istituzionali e della comunicazione di Autostrade , e successivamente responsabile dell’area strategica impresa e territorio di Confindustria . Il compito più importante di Farmindustria è di negoziare con l’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) la presenza dei medicinali nel prontuario, l’iter autorizzativo , prezzo e rimborso pubblico.
Dal risultato di queste negoziazioni dipende una larga parte del conto economico delle aziende farmaceutiche attive in Italia. Il compito, nel caso della signora Giorgetti , è particolarmente facilitato dal fatto che il ministro è suo marito: Maurizio Sacconi, titolare della delega al Lavoro e alla Salute

(dal libro “Il partito dei padroni”, che prevedo di ultimare nel 2012)