Sottomesso alla gogna dei buoni

Sempre per la serie:”ringraziamo il governo Renzi”.

Anche un laureato in marketing all’Università Ca’ Foscari di Venezia può essere pagato in voucher. E non per tagliare l’erba del giardino del vicino o per un’ora di pulizie sulle scale del palazzo di casa. Ma per redigere un business plan e gestire la parte web di un’azienda nell’ottica del commercio online. «All’inizio del 2015 comincio questo lavoro in una grande impresa con titolari famosi, che si riempivano la bocca di etica e rispetto dei dipendenti», spiega il nostro voucherista, che preferisce l’anonimato. «Mi hanno proposto un “periodo di prova” con questi buoni, hanno detto che lo facevano con tutti. Lavoravo dal lunedì al venerdì per 7 ore al giorno. Alla fine la prova è durata 6 mesi, in cui ho raggiunto il limite massimo di 5mila euro che si possono ricevere in voucher in un anno». Non solo, il voucherista transita su tre aziende diverse, per aggirare anche il limite di 2mila euro che potrebbe avere da un solo committente. «I miei colleghi lavoravano allo stesso modo – spiega ancora -. I primi mesi eravamo sotto una specie di gogna, alcuni venivano lasciati a casa da un giorno all’altro senza preavviso, a volte giustamente, altre meno. Dopo questo iter scattava un contratto di 6 mesi, dunque l’apprendistato. Poi, però, hanno cominciato a prendere troppi voucheristi, io li avevo anche sconsigliati. Alla fine gli stipendi non arrivavano più puntuali e ho visto scene piuttosto brutte». Non è un caso isolato. Le Adl Cobas di Padova, Milano, Bologna e Vicenza hanno uno sportello dedicato al lavoro autonomo e in particolare a quello accessorio, dove raccolgono ogni giorno storie di questo tipo. C’è anche una pagina Facebook, “Storie di voucher”, nata da meno di un mese, che vuole costruire un’inchiesta collettiva sul fenomeno. «Noi non vogliamo discutere dell’abuso – spiega Luca Dalt dell’Adl di Padova – ma dell’uso. Le imprese utilizzano oggi li utilizzano per lo più legalmente. Il lavoro accessorio così strutturato permette manomissione della subordinazione: comprende persone che lavorano per i comuni, nell’amministrazione, nella grafica, nel commercio, autotrasportatori, facchini». Controllare se dietro il voucher si nasconde un lavoro subordinato non è facile: una circolare ministeriale del 2013 invita gli ispettori del lavoro a considerare solo il tetto economico dei 5mila euro annui e non altre circostanze – come l’orario di lavoro – che possono configurare la prestazione come non occasionale.

L’economia cresce solo se si paga di più e meglio.

Merita un copia-incolla l’articolo del Fatto quotidiano di oggi che parla di uno studio sul mercato del lavoro inglese. In particolare, condivido e mi è piaciuta (è anche il mio pensiero) questa parte:

Ci siamo rassegnati ad essere il fanalino di coda in Europa nelle retribuzioni, immolate sull’altare della competitività. Come se la competitività non fosse il risultato di competenze moltiplicate per gli investimenti nei processi produttivi e nel prodotto. Infatti le aziende capaci di esportare con successo praticano una politica retributiva “generosa”, basata su buoni salari e benefici con i quali mantengono persone competenti e motivate.

Non possiamo continuare a pagare poco e male gli insegnanti, i giovani laureati, i metalmeccanici. E, insieme, gli infermieri e gli ingegneri, i giornalisti e i dipendenti pubblici…

Una politica miope che oltre a deprimere le capacità di consumo ha conseguenze ben più gravi nel tempo: il calo del numero di laureati, una cultura meno tesa a buone prestazioni, il drenaggio delle competenze migliori verso l’estero.

Un gap retributivo che riguarda perfino le cosiddette professioni superiori: un professore universitario guadagna molto di più se accetta una cattedra a Londra o a Chicago. Se interrogate un consulente d’impresa o un avvocato societario, scoprirete che, a competenze equivalenti, sarebbe pagato meglio sulla piazza di Londra. I nostri manager, che pure passano per essere pagati come dei cresi, sono pagati peggio dei colleghi francesi inglesi, svizzeri, per non parlare degli americani.

Nell’ultimo periodo post crisi si è diffusa un’altra prassi non meno pericolosa: far lavorare gratis esperti nelle commissioni o per i grandi progetti della pubblica amministrazione, con le ambiguità denunciate dal costituzionalista Michele Ainis in un bell’articolo. In verità la gratuità è una prassi da sempre per gli stagisti o per il cosiddetto praticantato negli studi di architettura, degli avvocati o nei giornali!

Il primo bisogno emozionale

Come bisogna reagire a quelle che sono possibili minacce e pericoli? Perché alcuni eventi o interazioni con gli altri ci fan­no piombare nella Zona di negatività? Pensateci bene, non ci si rende quasi mai conto del processo che si sta mettendo in moto dentro di noi. Anche quando cominciamo a capta­re l’insorgere di emozioni negative, di solito ci sforziamo di ignorarle o di dare la colpa a qualcun altro piuttosto che pen­sare a cosa ci ha condotto a tanto.

E ancora, poiché il male è più forte del bene, gli stimoli negativi lasciano solchi profondi nella memoria. Quando chiediamo ai nostri clienti di ricordare una minaccia re­cente, generalmente nessuno ha particolari difficoltà e col passare degli anni abbiamo raccolto migliaia di esempi. Nella stragrande maggioranza dei casi è possibile ricon­durre le origini della minaccia alla sensazione di essere sottovalutati o sminuiti da parole o comportamenti altrui. Il primo bisogno emozionale è sentirsi stimati e al sicuro: le sfide rivolte al nostro senso di valore personale di solito provocano l’effetto contrario, facendoci sentire svalutati e insicuri, a disagio nel migliore dei casi, insopportabili nel peggiore.

James Gilligan, professore di psichiatria alla Università della Pennsylvania ha studiato il fenomeno della violenza per quarant’anni. «Mi stupisce la frequenza con cui ricevo la stes­sa risposta da prigionieri o pazienti psichiatrici alla domanda: “Perché avete assalito o ucciso le vostre vittime?”.»4 «Ogni volta mi sento dire: “Perché mi hanno mancato di rispetto”.» Lo psichiatra ha scoperto che il motivo che spesso innesca una rapina a mano armata è proprio il desiderio di ottenere rispetto piuttosto che denaro. «Di volta in volta chi aveva commesso tali crimini ripeteva: “Non mi hanno mai rispettato così tanto come quando ho puntato la pistola in faccia a qualcuno”.»

Gilligan ci ha raccontato la storia di un prigioniero appa­rentemente incontrollabile. Continuava ad assalire le guardie nonostante le severe punizioni, tanto che fu messo in isola­mento. Ma anche così, non appena la porta si apriva, passava all’attacco. A quel punto fu chiamato Gilligan. «Cosa desi­deri talmente tanto da essere disposto a rinunciare a tutto il resto per ottenerlo?» Il prigioniero, che di solito si esprimeva in maniera confusa e poco comprensibile, si alzò e rispose al­lo psichiatra con straordinaria chiarezza: «Orgoglio, dignità, autostima». Quindi aggiunse: «E ucciderei per averli. Senza orgoglio non hai niente».

Questo bisogno di essere rispettati è fondamentale per la sopravvivenza. Anche Elijah Anderson, sociologo di Yale, ha trascorso molti anni a studiare il fenomeno della violenza e in particolare quello che chiama il «codice della strada» delle periferie più degradate, dove le possibilità di scalata sociale sono scarse se non nulle.5

«Tutto si basa sul rispetto» scrive Anderson «definito a grandi linee come l’essere trattati bene… il rispetto è una cosa che si conquista con molta fatica, si può perdere da un mo­mento all’altro e quindi bisogna continuamente stare all’er­ta.» Un articolo del «codice della strada» recita: «Se qualcu­no vi manca di rispetto, dategli una bella raddrizzata, senza farvi intimidire».

Il risultato è uno solo: sopravvive solo il più forte. «Una persona può guadagnare importanza solo se riesce a schiac­ciarne un’altra. Non si deve avere rispetto di nessuno, tutti provano a ottenere più considerazione possibile della poca a disposizione.» Facendo eco all’esperienza di Gilligan con il prigioniero violento, Anderson ha scoperto che «molti ragaz­zi dei quartieri più umili desiderano a tal punto il rispetto da rischiare la vita per ottenerlo e conservarlo».

I dirigenti con cui abbiamo lavorato hanno sicuramente più modo dei ragazzi cresciuti in strada di guadagnarsi il rispetto degli altri. Ma anche per loro sentirsi apprezzati non è meno vitale e dopotutto, se non sentiamo dentro di noi di valere qualcosa, chi siamo? Per quanto non vo­gliamo essere influenzati dal giudizio degli altri, il valore che ci attribuiamo è profondamente influenzato dai giudizi esterni. «Vogliamo che approvino la nostra esistenza, che ci prendano in considerazione, che reagiscano alle nostre azioni», spiega William Irvine nell’opera dal provocatorio titolo Del desiderio. Che cosa vogliamo e perché.** «Voglia­mo che ci amino o che almeno, se non ci amano, che ci am­mirino e anche se non ci ammirano, cerchiamo il rispetto o il riconoscimento.» O, come sostiene Daniel Goleman: «Le minacce alla nostra integrità sono molto sentite a livello biologico, quasi quanto quelle alla sopravvivenza».7

Più di qualsiasi altro tipo di stress, la sensazione di essere criticati sembra esigere il dazio maggiore a livello sia fisico sia mentale. Analizzando 208 studi relativi allo stress le ri­cercatrici Margaret Kemeny e Sally Dickerson scoprirono che l’aumento maggiore di cortisolo – le risposte attacca o fuggi più estreme – viene innescato dalle «minacce all’io so­ciale o all’approvazione, all’autostima e al proprio status». Una fonte di stress come un allarme o una sveglia impazzita può essere ovviamente scocciante, ma provoca una risposta tutto sommato blanda. Quando ci si imbatte in fastidi del genere il livello di cortisolo aumenta, ma rientra nei limi­ti entro una quarantina di minuti. Al contrario le minacce all’autostima causano un innalzamento più significativo del cortisolo, che rimane in circolo per più di un’ora. Questo spiega perché le critiche che ci vengono rivolte, anche quel­le più «costruttive», non sempre servono e anzi sono spesso controproducenti. Per accettare realmente e analizzare dei pareri critici, questi devono essere avanzati da persone di cui ci fidiamo e che tengono davvero a noi. Siamo molto meno propensi ad ascoltare chi ci dice semplicemente «hai sbagliato» rispetto a un consiglio del tipo: «Fino a ora sei andato bene, ma penso che per andare oltre dovresti miglio­rarti sotto questo aspetto».

Da un’altra analisi, Baumeister e il collega Mark Leary conclusero che quella di «appartenenza» è una delle princi­pali motivazioni umane. Abraham Maslow coniò per primo questo termine negli anni Sessanta, collocandolo al secondo posto, subito dopo la sicurezza, nella gerarchia dei biso­gni. Baumeister e Leary cercarono allora prove empiriche .1 riconferma di questa teoria. «Compiamo gran parte delle nzioni umane nel tentativo di soddisfare il bisogno di appar­tenenza», conclusero dopo aver esaminato decine di studi.8 «Provare un senso di appartenenza è fondamentale, al pari del cibo», o, come sosteneva Matthew Lieberman, neuroscienziato alla Università della California di Los Angeles: «Per un mammifero, ricevere cure e attenzioni è necessario per la sopravvivenza».

Voler instaurare rapporti positivi con gli altri sottoli­nea ancora di più l’importanza del nostro volerci sentire al sicuro, una condizione fondamentale anche per la nostra efficienza. Più il nostro valore personale è a rischio, più consumiamo energia nel tentativo di difenderlo, meno ne rimarrà per essere efficienti in quello che facciamo. Una minaccia è un campanello d’allarme che mette in guardia da potenziali pericoli e che, sempre se prendiamo l’esem­pio dei nostri clienti, ha sempre a che fare con la sensazione ili essere sottovalutati. Qui di seguito riportiamo la lista delle minacce più temute:

  • Sentirsi rivolgere parole di accondiscendenza o poco ri­spettose
  • Essere trattati ingiustamente
  • Non sentirsi apprezzati
  • Non essere ascoltati
  • Essere derubati del merito di un lavoro svolto
  • Essere lasciati in attesa
  • Mancanza di interesse verso un lavoro che state coordi­nando
  • Sentirsi criticati o accusati
  • Avere scadenze impossibili
  • Avere a che fare con persone che si credono chissà chi

(dal libro “Non si può lavorare  così” di Tony Schwartz che ho terminato di leggere l’estate scorsa, ma che è sempre utile)

Sulla tassazione diretta e indiretta ….

Più di cinquant’anni fa Ernesto Rossi, nel suo “I padroni del vapore”, scriveva:

Teoria ancora oggi continuamente ripetuta sui giornali della destra economica: per non accrescere i costi di produzione – si dice – non conviene colpire con le imposte dirette i profitti industriali : questi profitti, se esentati dalle imposte, vengono reinvestiti in attività produttive, sviluppando l’economia nazionale, con vantaggio dell’intera collettività […] . I disinteressati sostenitori di questa teoria non tengono conto del fatto che il prezzo dei servizi pubblici costituisce un elemento del costo di produzione di qualsiasi attività industriale ; elemento che, se non viene coperto con le imposte sul reddito di chi lo ricava svolgendo tali attività, deve necessariamente essere caricato sulle spalle di altri contribuenti; né tengono conto del fatto che una gran parte dei redditi industriali, lasciati liberi dei carichi tributari, invece di venire investita nel finanziamento delle imprese, è sperperata dai Grandi Baroni, dalle loro famiglie, dai loro amanti, dai loro parassiti, dai loro eredi, in ville, gioielli, pellicce, feste, crociere, servitù, gioco e speculazioni sballate. E neppure si chiedono se […] l’incentivo alla produzione non risulterebbe maggiore alleggerendo le imposte sui generi di largo consumo e migliorando i servizi pubblici, per consentire ai cittadini più poveri una maggiore possibilità di nutrirsi, di ripararsi dal freddo, di curarsi la salute, di istruire e preparare i figlioli alle diverse attività professionali.

(Dal libro “Il partito dei padroni – Come Confindustria e la casta economica comandano in Italia).

E ora, guardate come un imprenditore italiano, lodato da Confindustria, tratta i lavoratori serbi della nuova OMSA , azienda che aveva ottimi utili in Italia ma che è stata delocalizzata in Serbia perchè il governo serbo non fa pagare tasse alle nuove imprese. E sui diritti dei lavoratori…. ha un governo di destra.