Quello che non leggeremo più

da “Repubblica” di oggi

“Se escono fuori registrazioni lascio questo Paese”. Lo disse Berlusconi l’anno scorso, ad Ancona, e così annunciò la sua offensiva contro le intercettazioni. Più che un’offensiva, la distruzione risolutiva di uno strumento d’indagine essenziale per la sicurezza del Paese e del cittadino. “Permetteremo le intercettazioni – disse nelle Marche quel giorno, era aprile – soltanto per reati di terrorismo e criminalità organizzata e ci saranno cinque anni di carcere per chi le ordina, per chi le fa, per chi le diffonde, oltre a multe salatissime per gli editori che le pubblicano”.

Come d’abitudine, il Cavaliere la spara grossa, grossissima, consapevole che quel che ha in mente è un obiettivo più ridotto, ma tuttavia adeguato alla volontà di togliere dalla cassetta degli attrezzi della magistratura e delle polizie un arnese essenziale al lavoro. E, dagli strumenti dell’informazione, un utensile che, maneggiato con cura (e non sempre lo è stato), si è dimostrato molto efficace per raccontare le ombre del potere. La possibilità di essere ascoltato nelle sue conversazioni – magari perché il suo interlocutore era sott’inchiesta, come gli è accaduto nei colloqui con Agostino Saccà o, in passato, con Marcello Dell’Utri – è per il Cavaliere un’ossessione, un’ansia, una fobia. Ci è incappato più d’una volta.

Nel Capodanno 1987, alle ore 20,52 dalla villa di Arcore (Berlusconi festeggia con Fedele Confalonieri e Bettino Craxi).
Berlusconi. Iniziamo male l’anno!
Dell’Utri. Perché male?
Berlusconi. Perché dovevano venire due [ragazze] di Drive In che ci hanno fatto il bidone! E anche Craxi è fuori dalla grazia di Dio!
Dell’Utri. Ah! Ma che te ne frega di Drive In?
Berlusconi. Che me ne frega? Poi finisce che non scopiamo più! Se non comincia così l’anno, non si scopa più!
Dell’Utri. Va bene, insomma, che vada a scopare in un altro posto!
La conversazione racconta la familiarità tra il tycoon e un presidente del consiglio allora in carica che gli confeziona, per i suoi network televisivi, un decreto legge su misura, poi bocciato dalla Corte Costituzionale.
Già l’anno prima, il giorno di Natale del 1986, il nome di Berlusconi era saltato fuori in un’intercettazione tra un mafioso, Gaetano Cinà, e il fratello di Marcello Dell’Utri, Alberto.
Cinà. Lo sai quanto pesava la cassata del Cavaliere?
Dell’Utri. No, quanto pesava, quattro chili?
Cinà. Sì, va be’! Undici chili e ottocento!
Dell’Utri. Minchione! E che gli arrivò, un camion gli arrivò?
Cinà. Certo, ho dovuto far fare una cassa dal falegname, altrimenti si rompeva!
Perché un mafioso di primo piano come Cinà si prendesse il disturbo di regalare un monumento di glassa al Cavaliere rimane ancora un enigma, ma documenta quanto meno il tentativo di Cosa Nostra di ingraziarselo.
Al contrario, è Berlusconi che sembra promettere un beneficio ad Agostino Saccà, direttore di RaiFiction quando, il 6 luglio 2007, gli dice: “Io sai che poi ti ricambierò dall’altra parte, quando tu sarai un libero imprenditore, mi impegno a … eh! A darti un grande sostegno”. Che cosa chiedeva il premier? Il favore di un ingaggio per una soubrette utile a conquistare un senatore e mettere sotto il governo Prodi. O magari…
Ancora uno stralcio:
Saccà. Lei è l’unica persona che non mi ha mai chiesto niente, voglio dire…
Berlusconi. Io qualche volta di donne… e ti chiedo… per sollevare il morale del Capo (ridendo).
E in effetti, con molto tatto, Berlusconi chiede di sistemare o per lo meno di prendere in considerazione questa o quella attrice. Qualcuna “perché sta diventando pericolosa”.

È l’ascolto di queste conversazioni, disvelatrici dei rapporti con una politica corrotta, con il servizio pubblico televisivo in teoria concorrente, addirittura con poteri criminali, che il premier vuole rendere da oggi irrealizzabile per la magistratura e vietato alla pubblicazione, anche la più rispettosa della privacy.
Per scardinare, nell’opinione pubblica, la convinzione che gli ascolti telefonici, ambientali, telematici servano e non siano soltanto una capricciosa bizzarria di toghe intriganti e sollazzo indecente per cronisti ficcanaso, Berlusconi ha costruito nel tempo una narrazione dove si sprecano numeri iperbolici ed elaborate leggende. Dice: “Si parla di 350 mila intercettazioni, è un fatto allucinante, inaccettabile in una democrazia”. Fa dire al suo ministro di Giustizia che gli italiani intercettati sono addirittura “30 milioni” mentre sono 125 mila le utenze sotto ascolto (le utenze telefoniche, non gli italiani intercettati). Alla procura di Milano, per fare un esempio, su 200 mila fascicoli penali all’anno, le indagini con intercettazioni restano sotto il 3 per cento (6136).

Altra bubbola del ministro è che gli ascolti si “mangiano” il 33 per cento del bilancio della giustizia mentre invece sfiorano soltanto il 3 per cento di quel bilancio (per la precisione il 2,9 per cento, 225 milioni di costo contro i 7 miliardi e mezzo del bilancio annuale della giustizia). Senza dire che, per inerzia del governo, lo Stato paga al gestore telefonico 26 euro per ogni tabulato, 1,6 euro al giorno per intercettare un telefono fisso, 2 euro al giorno per in cellulare e 12 per un satellitare e l’esecutivo non ha tentato nemmeno di ottenere dalle compagnie telefoniche un pagamento a forfait o tariffe agevolate in cambio della concessione pubblica (accade all’estero).

Nonostante questa inerzia, le intercettazioni si pagano da sole, anche con una sola indagine. Il caso di scuola è l’inchiesta Antonveneta. Costo dell’indagine, 8 milioni di euro. Denaro incassato dallo Stato con il patteggiamento dei 64 indagati, 340 milioni. Il costo di un anno di intercettazioni e avanza qualche decina di milioni da collocare a bilancio, come è avvenuto, per la costruzione di nuovi asili.

Comunque la si giri e la si volti, questa legge serve soltanto a contenere le angosce del premier e dei suoi amici, a proteggere le loro relazioni e i loro passi, a salvaguardare il malaffare dovunque sia diffuso e radicato. Per il cittadino che chiede sicurezza e vuole essere informato di quel accade nel Paese è soltanto una sconfitta che lo rende più debole, più indifeso, più smarrito.

Se la legge dovesse essere confermata così com’è al Senato, i pubblici ministeri potranno chiedere di intercettare un indagato soltanto quando hanno già ottenuto quei “gravi indizi di colpevolezza” che giustificherebbero il suo arresto. E allora che bisogno c’è delle intercettazioni? Forse è davvero la morte della giustizia penale, come scrive l’associazione magistrati. Certo, è l’eclissi di un segmento rilevante dell’informazione. Da oggi si potranno soltanto proporre dei “riassuntini” dell’inchiesta e delle prove raccolte. Non si potrà pubblicare più alcun documento, nessun testo di intercettazione.
La cronaca, queste cronache del potere, però, non sono soltanto il racconto di imprese delittuose. Non deve esserci necessariamente un delitto, una responsabilità penale in questi affreschi. Spesso al contrario possono rendere manifesto e pubblico soltanto un disordine sociale, un dispositivo storto che merita di essere raccontato quanto e più di un delitto perché, più di un delitto, attossica l’ordinato vivere civile.

Immaginate che ci sia un dirigente della Rai che, in una sera elettorale, chiama al telefono un famoso conduttore e gli chiede di lasciar perdere con gli exit poll che danno un risultato molesto per “il Capo”. Immaginate che il dirigente Rai per essere più convincente con il conduttore spiega che quello è “un ordine del Capo”. Non c’è nulla di penale, è vero, ma davvero è inutile, irrilevante raccontare ai telespettatori che la scena somministrata loro, quella sera, era truccata?
Bene, ammesso che questa sia stata una conversazione intercettata recentemente in un’inchiesta giudiziaria, non la leggerete più perché l’ossessione del premier, diventata oggi legge dello Stato, la vieta. Chi ci guadagna è soltanto chi ha il potere. Chi deve giudicarlo non ne avrà più né gli strumenti né l’occasione.

Quella piccola arma costata 21 anni di carcere

da “Lettere dal carcere” del 3 maggio 2009:

Leggere sul giornale la storia di un giovane padre di famiglia che è stato ucciso con una coltellata in una banale lite per un parcheggio mi ha fatto ricordare la drammatica storia di un mio amico, che a 23 anni ha comperato un coltello che costava diecimila lire, ma che in realtà ha pagato con 21 anni di galera. Perché a volte si frequentano delle compagnie sbagliate e si ritiene «normale » avere un coltellino magari con il portachiavi, per sentirsi «figo», alla moda, senza rendersi conto delle conseguenze che possono nascere dal fatto di possedere un’arma. Stando in cella insieme, lui mi ha raccontato la storia che l’ha portato in carcere. In pratica, un giorno un suo amico aveva avuto uno scontro per stupidi motivi con delle persone, che era degenerato in una rissa. In questa rissa un ragazzo gli aveva fatto un taglio profondo sul viso, un vero sfregio, e da allora lui non pensava ad altro che a vendicarsi e a restituire il taglio ricevuto. Così aveva deciso di chiedere al mio compagno di cella di aiutarlo a dare una lezione a chi l’aveva ferito e gli aveva deturpato la faccia. Sono andati allora in un negozio di ferramenta, hanno comprato due coltelli da poche migliaia di lire l’uno e sono partiti per fare la loro vendetta. Però il ragazzo che volevano punire apparteneva ad una banda, e quando lo trovarono non era solo ma con altri amici che, guarda caso, erano tutti armati di coltelli. Ci fu una violenta rissa con calci, pugni e coltellate, con una tale confusione che nessuno era riuscito neppure a capire chi aveva colpito e da chi era stato colpito. Alla fine, tutti sono scappati, ma un ragazzo é. rimasto a terra. Il mio compagno di cella mi ha raccontato di essere andato a farsi medicare senza nemmeno immaginare di essere stato lui ad aver ucciso uno di loro, e solo dopo molte ore la notizia uscì su un giornale e lui si rese conto della tragedia. Seguì ben presto l’arresto, il carcere, e poi il processo conclusosi con una condanna a 21 anni di carcere. Ora sono 12 anni che é in galera, da quell’episodio non é più riuscito a riprendersi e continua a dirsi che, senza quel maledetto coltello a portata di mano, non sarebbe mai giunto a togliere la vita ad un altro essere umano. Ma se giri con un coltello, non puoi fingere di pensare che lo userai solo per minacciare, o al massimo per “dare una lezione” ai tuoi avversari. Prima o poi, succede sempre qualcosa che va oltre le tue intenzioni, e poi non si può più tornare indietro.

Maher Gdoura

Sull’uso dei coltelli da parte dei giovani

Dall’interessantissima rubrica “Lettere dal carcere” che viene pubblicata ogni lunedì dal Mattino. Questo messaggio non vale solo per gli extracomunitari ma anche per i giovani italiani (che in particolare nelle grandi città usano queste vere e proprie armi, vedi anche l’articolo tristemente premonitore apparso su Repubblica proprio il giorno prima dell’ultima aggressione a un minorenne a Roma):

Sono un ragazzo tunisino e,all’età di 17 anni, quando frequentavo la scuola al mio Paese, ho cominciato per la prima volta a portarmi un coltello in tasca. Non saprei spiegare il perché, forse per dimostrare di essere importante e per farmi rispettare. Un giorno mi è capitato di litigare con alcune persone davanti alla scuola e ho avuto paura di essere picchiato davanti ai miei compagni, così ho tirato fuori il coltello per difendermi, e questi ragazzi, quando lo hanno visto, sono scappati via.
Quel giorno mi sono sentito forte e coraggioso, pur non avendolo usato, e credevo di aver avuto successo davanti ai miei amici, ma non pensavo ancora alle conseguenze che sarebbero derivate da quel gesto, e dal fatto che da quel momento ho preso l’abitudine di portarmi sempre un coltello in tasca. Anche quando sono arrivato in Italia, mi . rimasta questa pessima abitudine, e quando mi capitava di litigare anche per motivi banali, subito lo tiravo fuori, e cominciavo ad usarlo contro altri ragazzi. Non sono mai stato arrestato, né denunciato, solo perché sono stato fortunato! Ma fino a quando la mia cattiveria avrebbe fatto così paura da evitarmi una denuncia? Fino a quando le cose sarebbero potute andar sempre bene, sempre “liscia”? Un giorno è successo che mi sono scontrato con un ragazzo tunisino come me, che aveva la mia stessa abitudine: entrambi non sapevamo risolvere i problemi in modo ragionevole, ma solo in maniera aggressiva con l’utilizzo del coltello, non curandoci delle possibili conseguenze. Questa volta sapevo benissimo che se gli facevo del male o era lui a farmene, la faida non sarebbe più finita. Per questo, dopo quella lite, ho pensato di usare un coltello più grande, portandolo con me tutti i giorni, nel timore di incontrare questa persona  e non potermi difendere. E purtroppo . capitato che ci siamo di nuovo scontrati e nella colluttazione l’ho ferito in modo grave. Dopo tre giorni sono venuto a sapere che questo ragazzo era morto. Non avrei mai pensato di arrivare ad uccidere qualcuno, ma quando si punta un’arma contro un’altra persona non si può illudersi che non succederà niente di irreparabile. Certo la mia intenzione non era quella di uccidere, io volevo solo dare una punizione, questo era quello che pensavo: ma il mio era un modo sbagliato di ragionare, perchè ho tolto  la vita a un’altra persona, rovinando due famiglie, quella della vittima e la mia, e ora mi trovo a scontare una pena di sedici anni di reclusione.

Rachid Salem

Mi ero dimenticato che…

Nella lettura approfondita del “Mattino” di domenica, un editoriale pubblicato mi ha ricordato un dato che avevo del tutto rimosso dalla mia mente, anche perchè Berlusconi continua a ripetere – e si sa, anche le peggiori menzogne ripetute diventano verità , i preti lo sanno bene – che tutti gli italiani sono con lui: la coalizione di Berlusconi ha ricevuto il 46,8 per cento dei voti. Quindi non è vero – come io stesso ripeto sempre – che due italiani su tre l’hanno votato. L’hanno votato meno di un italiano su due, maggioranza relativa e importante (contro il 37,5% del deludente , inefficace, confuso e pessimo ex-sindaco di Roma Veltroni), ma pur sempre una percentuale che mi fa ben sperare sul fatto che non siano poi una stragrande maggioranza gli italiani che credono nel signore che fa (con la Lega) le ronde in piazza per la sicurezza e poi fa un decreto per bloccare e limitare le intercettazioni e una riforma del codice penale che , parole di Alfano, “restituisce più forza alla difesa”.  Complimenti – a loro – ma soprattutto a chi, dopo cinque anni di governo Berlusconi , li ha rivotati.

A dicembre 2009 apre la Firenze-Bologna Alta velocità: nata per essere pericolosa

dal sito http://www.cfa-monferrato.it/approfondimenti_dettaglio.php?ID=187

PROPAGANDA VS INFORMAZIONE
Il cantiere del Carlone fu inaugurato in pompa magna (foto 6) dodici anni fa, il 10 luglio 1996, dal ministro dei Trasporti Claudio Burlando, dal presidente della Regione Toscana Vannino Chiti, dall’amministrazione delegato delle Ferrovie Lorenzo Necci, e da Franco Carraro, presidente di Impregilo, il più grande polo di costruzioni italiano, capo-cordata del consorzio costruttore CAVET, al quale il general contractor della TAV Firenze Bologna, FIAT Spa, ha affidato la progettazione e l’esecuzione dell’opera.
L’appuntamento coi contestati “supertreni” sotto l’Appennino (foto 7-9) era fissato per il 2003. Ma quel termine è stato spostato progressivamente sempre più avanti. Alla fine, dopo altri due anni di demolizioni e rifacimenti di gallerie mal costruite (2006-2007), il nuovo Ad delle Ferrovie Mauro Moretti annuncia che per vedere i treni bisognerà attendere almeno il 2009. Probabilmente anzi, preconizza Idra, molto più anni ancora, visto che per 60 km di linea sotterranea non è stato neppure progettato (e meno che mai costruito) un tunnel parallelo di soccorso. Il Comandante Provinciale dei Vigili del Fuoco di Firenze, l’ing. Domenico Riccio, in un parere ufficiale http://associazioni.comune.firenze.it/idra/27-3-’99.html scrive di nutrire “seri dubbi sulla rapidità ed efficacia dei mezzi di soccorso” in questa “galleria monotubo a doppio binario” con finestre intermedie poste a distanza reciproca di 6-7 km: “Non è possibile avvicinare i mezzi di soccorso, inviati in appoggio al mezzo intermodale, in zone prossime all’incidente. Tali mezzi infatti potranno raggiungere il punto di innesto delle finestre con la galleria di linea, ad una distanza dal luogo dell’incidente, nella peggiore delle ipotesi, di circa 3,5 km”! Un vero inferno per chi dovesse vivere, là sotto, le conseguenze di un deragliamento, di una collisione o di un attentato. Per chilometri, nessuna via di fuga, nessun mezzo di soccorso: uno scenario che sembra francamente improponibile.
1357 giorni dopo l’avvio dei cantieri, dopo che per anni la polvere finissima che entra nelle case anche dalle finestre ermeticamente chiuse ha tempestato bronchi e polmoni dei residenti, e ha ricoperto piatti, libri e arredi dentro le abitazioni, un rapporto ARPAT http://associazioni.comune.firenze.it/idra/8-5-’00.html trasmesso a Idra dai residenti del Carlone e datato 28 marzo 2000 annunciava: “La stretta contiguità fra l’abitazione e il cantiere fa ritenere che gli interventi di mitigazione non possano modificare sostanzialmente la situazione, una migliore pulizia degli spazi di lavoro potrà ridurre ma non eliminare la polverosità diffusa, ed inoltre non si ravvisano provvedimenti efficaci per intervenire sull’imbocco della galleria. Probabilmente l’unica soluzione possibile sarebbe costituita da una diversa collocazione dei residenti nella zona”. I malcapitati residenti saranno costretti in effetti a evacuare!
Neppure due mesi dopo, il 16 maggio 2000, con un comunicato indirizzato a tutte le maestranze, le rappresentanze sindacali unitarie del cantiere TAV del Carlone (Vaglia – San Piero a Sieve) informavano http://associazioni.comune.firenze.it/idra/17-5-’00.html su nuove situazioni di emergenza sanitaria e di rischio sul lavoro. “Tra il 12 e il 15 maggio – si legge nella nota diffusa – si sono verificati tre malori di altrettanti operai addetti alla galleria di Carlone, lato Firenze, dovuti, probabilmente all’esposizione all’ossido di carbonio. Due operai lavoravano al fronte e uno, più indietro, al rivestimento della calotta”. I delegati del cantiere del Carlone sottolineavano che tali svenimenti “destano un grave allarme, tra i lavoratori, per le condizioni operative in cui si opera in galleria (rischio cadute dall’alto), per la mancanza di una via di fuga immediatamente a portata, per la non conoscenza precisa delle cause che hanno originato i malori”.
Questo stesso cantiere del Carlone è stato visitato http://associazioni.comune.firenze.it/idra/19-2-’01.html con grande clamore mediatico, il 20 febbraio 2001, dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Giornali fra i più quotati titolarono “Ciampi nel Mugello inaugura il supertunnel”, e scrissero: “Per la prima volta in visita nel Mugello, Carlo Azeglio Ciampi oggi indosserà il casco giallo dei minatori nel cantiere del Carlone e vedrà cadere l’ ultima parete di roccia della galleria più lunga dell’intero tracciato dell’ Alta velocità”.
Non era vero.
Si trattava solo di una gigantesca operazione di immagine.
In realtà il tunnel rimaneva cieco, anche dopo il brindisi, dal lato Firenze: qui mancavano diversi delicati chilometri perché la galleria raggiungesse Quinto Fiorentino per accarezzare (se così si può dire) i due monumenti più antichi della città ‘capitale della cultura’, le tombe monumentali etrusche a tholos della Montagnola e della Mula (VII sec. a.C.). Solo il 21 ottobre 2005 http://associazioni.comune.firenze.it/idra/21-10-’05.htm verrà abbattuto l’ultimo diaframma di roccia, con nuova cerimonia ovviamente, alla presenza questa volta del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Pietro Lunardi, del vicepresidente della Regione Toscana Federico Gelli e del sindaco di Sesto Fiorentino Gianni Gianassi. Ma ancora a ottobre 2006 saranno riportate notizie di esplosioni di mine http://associazioni.comune.firenze.it/idra/24-11-’06.htm, in quella galleria…
Un mese più tardi della visita del capo dello Stato, in una lettera aperta a lui indirizzata, il delegato CGIL di quel cantiere, Pietro Mirabelli, scriveva http://associazioni.comune.firenze.it/idra/minatav.html: “Le ho stretto la mano quando, un mese fa, è venuto a “festeggiare” nella galleria di Vaglia dell’Alta Velocità ferroviaria l’abbattimento di un diaframma (ma quella galleria è ancora lontana dall’essere finita: la festa era un po’ prematura…). L’ho chiamata con rispetto, Le ho stretto la mano e Le ho sussurrato: “Ci salvi Lei, Presidente!”. Ricorda? Mi ha guardato, ha avuto un moto di sorpresa forse: ero proprio io, quel rappresentante sindacale delegato alla sicurezza che Le aveva scritto poche ore prima per chiedere di poterLe parlare in occasione della sua visita. Avrei voluto raccontarLe i problemi che assillano ancora oggi la vita, e umiliano la dignità, di centinaia e centinaia di lavoratori aggiogati al ciclo continuo e a condizioni ambientali abbrutenti, qui nella civilissima Toscana, nelle viscere dell’Appennino, in mezzo all’acqua e al fumo, a mille chilometri da casa. Ma la Prefettura di Firenze mi informò che quel giorno Lei avrebbe avuto troppo poco tempo”.
Solo tre settimane prima che Carlo Azeglio Ciampi indossasse il casco giallo dei minatori nel cantiere tirato a lucido come un salotto per l’occasione, sotto i riflettori condiscendenti delle telecamere dei TG nazionali, l’Azienda Sanitaria aveva denunciato nero su bianco le condizioni-limite in cui erano costretti a lavorare i lavoratori TAV. Ecco alcuni eloquenti estratti di quel report http://associazioni.comune.firenze.it/idra/4-4-’01.html dell’Area Prevenzione Igiene Salute e Sicurezza nei Luoghi di Lavoro della ASL 10 di Firenze, datato 31 gennaio 2001.
“Il sistema di ventilazione attuale non è più in grado di “pompare” una quantità d’aria sufficiente per realizzare le fasi di scavo con martellone e trasporto del marino fuori dalla galleria (…). Le misure di prevenzione devono essere aggiornate in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e della sicurezza del lavoro, ovvero in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione e della protezione. In particolare al fine di diminuire l’esposizione di tutti i lavoratori operanti in galleria durante le operazioni di smarino si dovrà modificare-aggiornare l’intero sistema di ventilazione al fine di rispettare le misure di prevenzione previsti nei documenti di valutazione del rischio aziendali (Piani di Sicurezza) e dalle norme vigenti.
Misure immediate ed urgenti – Al fine di ridurre immediatamente i rischi derivanti dall’esposizione ai gas inquinanti dei lavoratori (…)dovranno essere adottate specifiche misure urgenti di tipo organizzativo e procedurale, quale la riduzione del carico inquinante in galleria durante le operazioni di smarino. (…)
Respirabilità dell’aria – L’aria ambiente della galleria per gli operatori addetti alle mansioni di palista, escavatorista, dumperista e caposquadra minatore, addetti alle operazioni di smarino, non risulta respirabile ed esente da inquinanti entro i limiti di tollerabilità. (…)
Nel documento di valutazione dei rischi (Piano di sicurezza generale e nei Piano Operativo Particolareggiato di Sicurezza Dlgs 494/96) non è stato valutato il rischio per la salute dei lavoratori addetti alla guida dei mezzi che percorrono l’intero tratto di galleria per più volte durante il turno di lavoro (autisti dumpers, autobetoniere, addetti agli impianti, preposti, ecc.), in particolare per quanto riguarda l’inalazione di aria non fresca contenente elevate quantità di gas scarico. Infatti l’attuale sistema di ventilazione può tutelare soltanto i lavoratori presenti nella zona compresa tra il fronte e l’arco rovescio.
In seguito alla mancata valutazione del rischio non sono state individuate né adottate misure di prevenzione e di protezione”.

Quota bontà, ultima beffa

dal “Corriere” di oggi

di Gian Antonio Stella

Parola del governo: i soldi per la fame nel mondo non finiranno nelle casse delle banche in crisi. Meno male, sull’8 per mille ne avevamo già viste troppe. Quando fu istituito la legge era chiara: i soldi raccolti dallo Stato (quelli alla Chiesa Cattolica, alle comunità ebraiche o agli Avventisti sono un’altra faccenda) andavano destinati a «interventi straordinari per fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione di beni culturali ». Doveva essere una specie di «quota bontà»: una fettina delle tasse veniva smistata a iniziative delle quali lo Stato spesso finisce per dimenticarsi. Una legge giusta. Accolta, fatta eccezione per un po’ di laici (secondo i quali pure una parte del denaro «statale » finiva per essere girata ancora alla Chiesa) da un vasto consenso.

Cosa c’è di più consolante che pagare le imposte e sentirsi insieme più buoni? Col tempo, però, l’idea è stata stravolta. E nella saccoccia dell’8 per mille ha cominciato a infilare le mani chi voleva far quadrare conti che non quadravano. Fino al punto che una volta un terzo del gettito fu usato per la «missione umanitaria» in Iraq e un’altra volta per tappare un buco al comune di Catania che non riusciva a pagare i libri scolastici dati coi buoni sconto o una tournée di ballerini brasiliani. Solo in parte corretto dal governo Prodi, l’andazzo è ripreso con una accelerazione che, in commissione Bilancio, ha sconcertato gli stessi membri della maggioranza. Basti dire che, svuotata la cassa per otturare la voragine aperta dalla abolizione dell’Ici, degli 89 milioni originali di euro dell’8 per mille, togli qua e togli là, ne sono rimasti 3.542.043.

Un quinto dei soldi che i partiti di destra e sinistra, tra le proteste dipietriste, si sono spartiti un paio di settimane fa coi rimasugli della «legge mancia» varata nel 2004 per sparpagliare prebende nei collegi elettorali. Di più: il costo dell’istruttoria per spartire i fondi supera l’importo distribuito. Una follia. Fatti i conti, le 808 associazioni di volontariato, enti, e organismi vari le cui richieste erano state accettate avrebbero avuto 4.383 euro a testa. Coriandoli. Spazzati via da una scelta drastica: meglio concentrare i finanziamenti su sei comuni e una provincia colpiti da calamità naturali. E ai rifugiati politici? Zero. Ai beni culturali? Zero. Alla fame nel mondo? Zero. Diciamolo: così com’è, l’8 per mille allo Stato è meglio abolirlo.

La tassa resterà, ma almeno la pagheremo senza sentirci presi in giro. Tanto più che, in parallelo, venivano rosicchiati i soldi anche del 5 per mille. Per gli aiuti al Terzo Mondo erano previsti, quest’anno, 733 milioni. Macché: 322. Che faranno dell’Italia, a dispetto delle promesse del Cavaliere al G8 di Genova («Non basta lo 0,70 del Pil: gli stati ricchi dovrebbero dare ai poveri l’uno per cento!») il Paese più tirchio dell’Occidente con una quota dello 0,09. La più striminzita dal 1987. Un dato per tutti: coi soldi tagliati, secondo il C.i.n.i. che raggruppa le associazioni non profit, si potevano comprare 100 milioni di zanzariere contro la malaria in Africa o vaccinare contro la poliomielite 15 milioni di bambini. Ma non si era detto che per non essere invasi da disperati in fuga dalla miseria bisognava aiutarli a casa loro?

Signore e signori, le banche

dal blog di Beppe Grillo

Cos’è un giornalista economico? E’ una figura strana. Un addetto stampa delle aziende che fanno pubblicità sul giornale in cui scrive. Un Nostradamus del giorno dopo, che prevede il crack quando è già avvenuto. Un portaordini dell’editore che a sua volta è un portaordini degli azionisti.
I giornalisti economici scrivono articoli dubitativi. Fateci caso. “Se succede questo allora… Se dovesse avvenire quest’altro quindi… forse, chissà…”. La prima regola del giornalismo è che se hai una notizia devi darla. Il giornalista economico fa il contrario: se ha una notizia, la tiene per sè. In Italia ci sono diversi giornalisti politici che denunciano corruzione e mafie, da Travaglio a Abbate, da Saviano a Gomez. Ma di giornalisti economici che si espongono non c’è traccia. Perchè?
La Parmalat e la Cirio, i Tango Bond e la truffa dei mutui variabili (le banche li vendevano sapendo che sarebbero esplosi), le azioni di Telecom Italia volatilizzate, i debiti inesigibili (i subprime) venduti come obbligazioni e i titoli della Lehman Brothers in via di fallimento e considerata a basso rischio il giorno prima. I giornalisti economici sono a conoscenza dei fatti. Mesi prima. Ma le loro bocche rimangono cucite.
Le banche posseggono quote di giornali. Dovrebbe essere proibito per legge. Profumo, Passera o Geronzi vendano denaro, non informazione, in particolare se l’informazione è quella di PattiChiari.
“PattiChiari è un Consorzio di 167 banche italiane con 26mila sportelli (84% dell’intero sistema bancario italiano), promosso dall’Associazione Bancaria. Il suo obiettivo è di offrire strumenti semplici e moderni che ti aiutino a capire meglio i prodotti finanziari. La filosofia del progetto è infatti quella di costruire una nuova relazione tra le banche e i cittadini, le famiglie e le imprese, basata su una maggiore fiducia e un dialogo chiaro, comprensibile e trasparente”.
Un lettore mi illustra “la filosfia del progetto” di PattiChiari.

Ciao Beppe,
alle volte la realtà supera la fantasia del più creativo dei comici. Ho ricevuto oggi una e-mail da alcuni amici che lavorano nel settore bancario con i link che ti indico di seguito e ci tenevo a segnalarti questa cosa.Non so quanti l’hanno notato ma sul sito www.pattichiari.it, nello specifico a questa pagina si trovano alcune obbligazioni cosiddette “a basso rischio“, quelle di Lehman Brothers!
Non volevo crederci, me lo sono dovuto rileggere quattro o cinque volte, soprattutto il trafiletto che copio ed incollo:
“PattiChiari propone un elenco consultabile di obbligazioni a basso rischio e di conseguenza a basso rendimento, costantemente aggiornato, per orientare chi è privo di esperienza finanziaria e intende investire in titoli particolarmente semplici da valutare.”
Cioè una persona priva di esperienza finanziaria che ha ascoltato i consigli di loro, grandi esperti, si è appena trovato in mano un pugno di carta straccia come nel caso Argentina e Parmalat.
I “Grandi Esperti” oggi hanno pubblicato una nota a questa pagina in cui dicono “In data odierna tutti i titoli Lehman Brothers sono usciti dall’Elenco Pattichiari “Obbligazioni Basso Rischio Basso Rendimento” a seguito della comunicazione della stessa società di voler depositare la dichiarazione di fallimento (Chapter 11 of the U.S. Bankruptcy Code).”
Beppe, ormai non c’è nemmeno più bisogno che tu li metta alla berlina, praticamente ormai si smutandano da soli! Un saluto.” Gerolamo

Il paese arretrato: assistenti sociali alla riscossa. Tolto alla madre perchè iscritto a Rifondazione

da “Repubblica” di oggi

Gli dicono che somiglia a Scamarcio, l’attore. A sedici anni, fa piacere. Ma ha promesso che oggi si taglia i capelli arruffati e magari non lo bollano più come comunista. Circolo Tienanmen, tessera dei Giovani comunisti, trovata dal padre, fotocopiata dai servizi sociali, allegata all’ordinanza del Tribunale di Catania, prima sezione civile, per dimostrare nella causa di affido che la madre non sa badare all’educazione del ragazzo il quale ha “la tessera d’iscrizione a un gruppo di estremisti”.

Quindi, M. P. – che preferisce non essere citato con il suo nome, visto che lui, ragazzo esuberante, lo conoscono un po’ tutti a Catania – è stato di fatto accusato di essere comunista rifondarolo, uno che frequenta “luoghi di ritrovo giovanili dove è diffuso l’uso di sostanze alcoliche e psicotrope”, dove cioè c’è il sospetto che si bevano birre e si fumino spinelli. Nel giudizio degli assistenti sociali, le cose stanno pure peggio perché i comunisti sono “estremisti, il segretario del circolo è un maggiorenne che pare abbia provveduto a convincere all’iscrizione e all’attivismo altri ragazzi”, tra cui l’amico del cuore del sedicenne, anche lui una testa matta che lo trascina nella vita “senza regole”. Non è l’unica ragione, ovvio, per far pendere la bilancia della contesa sull’affido dalla parte paterna, ma la militanza comunista è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. M. P. è stato tolto alla madre e ora assegnato al padre, insieme al fratello più piccolo.

Tra un uomo e una donna, dopo una travagliata separazione, la resa dei conti si scarica spesso sui figli. Cose che succedono, non dovrebbero. La ragione, si sa, non sta mai da una parte sola. Però a Catania, ora ci si è messa di mezzo la politica. Mai infatti i comunisti, rifondaroli o del Pdci, si erano sentiti citati in un tribunale come pericolosi, estremisti, prova provata e sintomo di devianza giovanile. “Fino a ieri si chiamava militanza, e Rifondazione era il partito del presidente della Camera, Fausto Bertinotti; la sinistra comunista aveva due ministri nel governo Prodi”, si sfoga Orazio Licandro, responsabile dell’organizzazione del Pdci. Nel partito di Diliberto hanno suonato l’allarme: comincia così la caccia alle streghe, usando in una storia delicata e complessa di affido familiare lo spauracchio dei comunisti, “è l’anticamera della messa al bando, siamo ormai extraparlamentari e anche pericolosi. Non è fascismo? Poco ci manca”. Elencati nel dossier del tribunale infatti ci sono la tessera, con il costo dell’adesione, il faccione di Che Guevara e la fede nella rivoluzione riassunta nella frase “No soy un libertador, los libertadores existen, son los pueblos quienes se liberan”. (nota mia: la citazione è sbagliata. Quella corretta è :No soy un libertador. Los libertadores no existen. Son los pueblos quieneas se liberan  a si mismos.)

C’è inoltre la parodia di una canzone dei Finley “Adrenalina”, ode alla cocaina, riferimenti che mandano in tilt un padre come una madre. Mamma Agata, medico ospedaliero, è disorientata. Il Tribunale la obbliga intanto a versare 200 euro al mese al marito per il mantenimento dei figli, a lasciare la casa nel comune etneo dove la famiglia risiedeva. Nel più pessimista dei suoi incubi, racconta, si aspettava un affido condiviso. L’Istat calcola che ormai in Italia i figli bipartisan del divorzio stanno crescendo fin quasi a diventare sette su dieci. Dev’essere la storia di un’altra Italia, non cose che capitano qua, da queste parti a Catania, taglia corto Agata. Non è disposta a riconoscere argomenti e legittimità delle richieste paterne, che invece ci sono. E il figlio? “Va al mare e studia, ha avuto tre debiti al penultimo anno del classico – greco, latino e filosofia – d’altra parte come può essere sereno con questa guerra in atto?”.

Non facile certo, spiegare a M. P. che le difficoltà della vita per alcuni, per lui ad esempio, si sono presentate in anticipo. Capita, ma s’impara prima. Difficile a quanto pare, far comprendere al padre che, come scriveva Freud, l’adolescenza è una malattia grave ma per fortuna si guarisce. L’avvocato della madre Mario Giarrusso assicura che tenterà altri approcci, mediazioni, soluzioni. I comunisti denunciano il clima da “anticamera della messa al bando” che si respira nell’isola. M. ha progetti bellicosi per l’autunno, ma tutti davvero poco preoccupanti: una band con gli amici dove lui vuole suonare il basso e la chitarra, la militanza politica, il teatro grande passione. “Con il suo gruppo ha vinto anche un premio”, s’inorgoglisce la dottoressa Agata. Nelle relazioni dei servizi sociali e nell’ordinanza del tribunale le si rimprovera di avere nascosto al marito che il ragazzo ha avuto una “irregolare frequenza scolastica”, di avere dato il suo beneplacito a “mancati rientri a casa”, oltre a una serie di leggerezze anche verso l’altro fratellino (la figlia più grande è maggiorenne). Ma mai si sarebbe aspettata di trovarsi sotto accusa per le idee del figlio.

Parcheggiare a Linate costa il triplo che a New York

dal “Corriere” di oggi
Si può dire e pensare di tutto degli aeroporti milanesi. Che non sono facili da raggiungere; che le boutique e i bar non sono il massimo; che i bagagli ogni tanto svaniscono nel nulla. Tutto. Tranne che siano a corto di parcheggi per le auto. Ce ne sono in abbondanza, come in nessuna altra città. A Milano tra i due aeroporti si arriva a 14.178. Per dare un’idea: mill e posti in più di Roma (13.045). Il doppio di quelli a disposizione di chi arriva al Terminal 3 di Pechino (7.000), costruito per l’Olimpiade, uno degli hub più grandi del mondo ( ? Il confronto). Come se non bastasse, le ruspe sono in azione: per la fine del 2008 a Linate di posti auto se ne conteranno 1.500 in più. Un’abbondanza che gonfia le casse di Sea ma svuota quelle dei viaggiatori: gli areoporti milanesi sono i più cari d’Italia e, tranne qualche capitale, d’Europa.

Quattro euro per un’ora di sosta a Malpensa e 3,80 a Linate non li si paga da nessuna parte. Fatta eccezione per Napoli (3,50 euro) e Roma (3 euro), in tutti gli aeroporti italiani la tariffa è molto più bassa: a Palermo un’ora costa 1,50, a Venezia 2. Ma è sul ticket settimanale e sulle tariffe di due-tre giorni che la differenza è sbalorditiva. A Bologna si può parcheggiare l’auto una settimana spendendo 30 euro. Ad Amsterdam la stessa tariffa è compresa tra 40 e 70 euro, a Madrid e Vienna il costo è poco più di 50. A Malpensa per 3 soli giorni di sosta si pagano 66 euro. A Linate 81 (e 189 per una settinana). Immaginate di riuscire ad acquistare un volo Milano-Roma ad un prezzo contenuto. Diciamo 140 euro (per esempio ad ottobre). E che per varie ragioni siate costretti a posteggiare per 5 giorni la vostra auto a Linate. Il costo giornaliero è di 27 euro. Moltiplicato per cinque fa 135. Quasi quanto il biglietto aereo. Nunzio Buongiovanni, dell’Adoc Lombardia (consumatori), non riesce a farsene una ragione: «È grottesco».
Perché Milano è così cara? Perché una settimana a Linate costa tre volte New York (65 euro) o Dublino (59,5 euro)? Intanto c’è un problema di carattere generale, che riguarda tutti gli areoporti. Da un anno è entrata in vigore una norma (Cipe) che pone dei limiti all’arbitrio delle società di gestione. Proprio per contenere le tariffe. Ma non è applicata, per due motivi. L’Enac non ha potere di sanzione ed è di controversa interpretazione. Quindi gli aeroporti continuano a fare quello che vogliono. «Non voglio giustificare le società, ma la colpa è del legislatore. La Sea fa il suo interesse: se ha la possibilità, cerca di guadagnare il massimo», dice Marco Ponti, docente di Economia dei Trasporti del Politecnico. Poi c’è la specificità milanese: la Sea, tra le varie società aeroportuali, è quella che trae i maggiori profitti dalle carenze legislative.
Il professore Ponti, una idea se l’è fatta: «Evidentemente la richiesta business è così alta che permette alla Sea di non cambiare strategia. Tanto, pensano, pagano le ditte. Le famiglie si fanno accompagnare dai parenti». Secondo Nunzio Buongiovanni, che è pure rappresentante dei soci di minoranza della Sea, a Milano i parcheggi costano perché i servizi di terra sono diventati il vero affare: «Costituiscono il 44% (ricavi non-aeronautici) rispetto al 56% di quelli aeronautici (cioè i diritti che pagano le compagnie aeree). E servono a Sea per compensare altre voci di bilancio meno esaltanti». Anche perché negli ultimi anni la liquidità è stata prosciugata dal Comune, socio di maggioranza, che ha intascato in dividendi oltre 300 milioni di euro.
«In passato i soldi si lasciavano in cassa. Per gli investimenti», dice Buongiovanni, che per essere chiaro prende in mano il bilancio 2007. Legge: «Il parcheggio costituisce il 10% dei ricavi. Molto più del Cargo (2%) o degli altri servizi di terra, tipo manutenzione, bagagli, check-in (7,7%). Rispetto al 2006 l’incremento è stato dell’11 per cento. Sea ha incassato 46 milioni di euro contro i 40 dell’anno prima». Bilanci alla mano nessuno ha fatto meglio. Basta fare un raffronto con quello che gestisce Fiumicino: a (quasi) parità di posti auto, sono stati incassati 30 milioni di euro (16 milioni in meno). Buongiovanni tutte le settimana vola a Roma. E ogni volta si stupisce. «Le tariffe sono le più alte d’Italia ma già alle sette del mattino i parcheggi di Linate sono pieni». Tanto pagano le ditte.
Agostino Gramigna

Quelle tre lettere che significano progresso sociale di un paese

da “Repubblica” di oggi
ROMA – Una sanità povera per i più poveri. È questo il sospetto che aleggia nell’aria e che preoccupa medici e sindacati, che bocciano senza appello le misure sulla sanità introdotte dal governo e si preparano a dare battaglia a settembre.

Tagli ai posti letto negli ospedali, diminuzione degli organici, blocco del turn-over e nessun futuro per 12mila precari che lavorano nelle strutture ospedaliere. E tagli, ovviamente, ai fondi destinati alla sanità, perché il Patto per la salute, sottoscritto con le Regioni, è stato ridimensionato. E non è finita, perché con un tratto di penna il governo ha revocato il decreto votato dall’esecutivo Prodi che estendeva i livelli essenziali di assistenza ( i Lea) a nuovi servizi e categorie: dal dentista per gli indigenti alla fornitura di apparecchi per la mobilità, al parto indolore.

Il decreto garantiva anche una maggiore assistenza ai malati cronici, a cominciare dall’Alzheimer; forniva gli apparecchi a chi non riesce più a parlare e a sentire; riconosceva 109 malattie rare, ampliava i servizi di protesi con l’introduzione di nuovi ausili informatici e rafforzava l’assistenza a domicilio ai malati terminali. Infine prevedeva il vaccino gratuito contro il papilloma virus, causa del cancro all’utero. Ora tutto questo è cancellato, o quanto meno sospeso.

Non c’era la copertura finanziaria per quel decreto, è stata ieri la risposta del governo. E in effetti la Corte dei Conti aveva sollevato alcuni dubbi. “Ma si poteva discutere, ribatte la Cgil, anche perché proprio sulla copertura era stato concordato un piano con le Regioni. Alcune prestazioni sarebbero passate dall’ospedale al day hospital, e alcune oggi prerogativa dei day hospital, agli ambulatori”. Da quel risparmio sarebbe arrivati i soldi per allargare le prestazioni, che invece ora il governo ha cancellato.

Una mossa che ha sollevato una protesta generale. Alla quale il ministro del Welfare (e della Sanità), Maurizio Sacconi, ha risposto così: “Il decreto del governo Prodi era un atto puramente elettorale”, insomma una promessa. Le prestazioni, ha detto, “verranno reintrodotte, ci sta lavorando il sottosegretario Fazio”. Oggi “non c’erano gli 800 milioni necessari a finanziare gli interventi”.

Parole che non convincono la Cgil: “Intanto il decreto è stato cancellato. Verrà ripristinato? Ma quando? A babbo morto. Il problema è che questa Finanziaria non incide sugli sprechi e il malaffare che sono da ricercare nel rapporto tra strutture pubbliche e private”. Anche per l’ex ministro Livia Turco “le risorse c’erano, e sono state stralciate dal governo”.

La battaglia vede unite tutte le sigle sindacali. “Prendiamo atto che la legislazione ci è ostile – dichiara l’Anaao (medici ospedalieri) – e che le scelte fatte avranno come conseguenza un servizio sanitario più povero con professionisti demotivati. Ma le ricadute ci saranno soprattutto sui cittadini”. I medici ospedalieri sono già sul piede di guerra: a ottobre hanno annunciato uno sciopero di tre giorni.

Replica Sacconi: “La protesta fa parte di una logica vetero-sindacale”. E nel “Libro verde” che presenterà oggi scrive: “Non c’è alcuna intenzione di smantellare il sistema del welfare né di tagliare la spesa sociale”.
(25 luglio 2008)