Autore: fable
Produttività? Nella PA è solo un’illusione
La produttività nell’amministrazione pubblica è una finzione, un gioco che dura da quasi trent’anni, costosissimo, burocraticamente inestricabile, sostanzialmente inutile.
Tutti lo sanno, ma si continua a dare credito ai fattucchieri dell’aziendalismo, che da decenni si sono insinuati tra i consulenti del legislatore (e tra i consulenti e gli organismi indipendenti di valutazione di ciascuna PA), per instillare dottrine che nelle aziende private hanno un senso, mentre nel sistema pubblico assolutamente no.
Lo scrive chi è solo un “burocrate” bizantino e borbonico, insensibile al “miglioramento continuo” ed ai benefici dei piani della produttività?
No. È la Corte Costituzionale, che con la sentenza 27 giugno 2017, n. 153 ci fa fare, come spesso capita a Palazzo della Consulta, un bel bagno di realismo, a disdoro della narrazione trentennale di “risultati” e “performance”, tanto vana, quanto costosa.
La recente pronuncia della Corte Costituzionale
La sentenza ha rigettato la questione di legittimità costituzionale posta (doveroso dirlo: con tanta leggerezza) sulla mancata estensione alla Pubblica Amministrazione (segnatamente all’Agenzia delle Entrate, che secondo la dottrina di Vincenzo Visco, non si capisce perché, dovrebbe rappresentare l’avanguardia dell’aziendalismo nella PA, mentre si tratta di un servizio tipicamente ed esclusivamente pubblicistico) della normativa sulla detassazione dei premi di produttività.
Il ricorso lamenta, dunque, la circostanza che non si applichi al lavoro pubblico “la più vantaggiosa imposta sostitutiva del 10 per cento, prevista originariamente dall’art. 2 del decreto-legge 27 maggio 2008, n. 93 (Disposizioni urgenti per salvaguardare il potere di acquisto delle famiglie), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 126. Secondo tale disposizione, le somme erogate a livello aziendale nel periodo dal 1° luglio 2008 al 31 dicembre 2008 in relazione, tra l’altro, «[…] a incrementi di produttività, innovazione ed efficienza organizzativa e altri elementi di competitività e redditività legati all’andamento economico dell’impresa», sono soggette «a una imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali pari al 10 per cento, entro il limite di importo complessivo di 3.000 euro lordi» (comma 1, lettera c). La misura, introdotta in via «sperimentale» e applicabile esclusivamente al «settore privato» (comma 5), è stata sostanzialmente prorogata negli anni successivi, fino al citato art. 53 del decreto-legge n. 78 del 2010, rilevante per le somme percepite nel 2011, che ne conferma l’applicabilità ai soli «lavoratori dipendenti del settore privato”.
Giusto considerare incostituzionale il fatto che questa normativa particolare non si applichi al lavoro pubblico? Sbagliato, secondo la Consulta. Che ne spiega il perché in modo tanto semplice, quanto tranciante: “La detassazione in esame ha lo scopo, evidente, di incentivare la produttività del lavoro, ma il suo oggetto è ben delimitato dal legislatore, che non lo collega a un generico miglioramento delle prestazioni dei lavoratori dipendenti, bensì all’erogazione di somme «correlate a incrementi di produttività, qualità, redditività, innovazione, efficienza organizzativa, collegate ai risultati riferiti all’andamento economico o agli utili della impresa o a ogni altro elemento rilevante ai fini del miglioramento della competitività aziendale». Questo preciso collegamento, richiesto dalle norme censurate, evoca la necessità di una stretta connessione tra l’agevolazione fiscale delle somme erogate ai lavoratori e l’esercizio da parte del datore di lavoro erogante di un’attività economica rivolta al mercato e diretta alla produzione di utili. Tramite l’agevolazione fiscale il legislatore intende quindi promuovere la competitività delle imprese nell’interesse generale.
Il rimettente muove dal presupposto che a queste stesse finalità sia preordinato anche il «fondo per le politiche di sviluppo delle risorse
umane e per la produttività», istituito dal contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al personale del comparto delle Agenzie fiscali, stipulato il 28 maggio 2004, con lo scopo di «promuovere reali e significativi miglioramenti dell’efficacia ed efficienza dei servizi istituzionali, mediante la realizzazione, in sede di contrattazione integrativa, di piani e progetti strumentali e di risultato» (art. 85, comma 1, del contratto collettivo citato).
Questa stretta funzionalizzazione al miglioramento dei servizi istituzionali affidati alle Agenzie fiscali, nei cui riguardi non possono essere fissati obiettivi di miglioramento della competitività aziendale o di incremento della produzione di utili, esclude la connotazione finalistica del regime di detassazione prospettata dal giudice a quo e, con essa, la paventata discriminazione”.
Osservazioni corrette e ineluttabili. Nessuna amministrazione pubblica, nemmeno l’Agenzia delle Entrate, che, a torto, ritiene di essere una sorta di amministrazione a sé pienamente assimilabile ad un’impresa privata, può perseguire né la promozione della competitività nel mercato (per la semplicissima ragione che la PA non opera nel mercato), né incremento di utili (per l’ancor più evidente ragione che la PA produce servizi finanziati dalle imposte e non deve perseguire alcun utile, se non l’interesse pubblico alla corretta ed utile spesa connessa alle entrate).
Le poche, chiarissime e semplici parole della Consulta dovrebbero essere sufficienti a dire basta, per sempre, al giochino del “piccolo manager” che da anni si persegue nella PA. Che, non essendo orientata né al profitto, né all’occupazione di posizioni di mercato, non a caso stenta da sempre (e sempre stenterà) a trovare obiettivi di produttività non risibili e utili. Basti pensare che il legislatore considera, ex lege, come obiettivi di produttività indicatori che con la produttività non hanno assolutamente nulla a che vedere, come la pubblicazione di certi atti, o il rispetto di termini procedurali, cioè meri adempimenti normativi il cui rispetto, se da un lato può essere segno di un funzionamento corretto di ciascun ente, dall’altro non è idoneo in modo assoluto a dimostrare un valore aggiunto nel rapporto input/output di risorse, che rappresenta in modo semplice la produttività.
La Consulta suona la sua campana
Ovviamente, nessuno prenderà atto dell’epitaffio che la Consulta ha scritto sulla pietra sepolcrale che dovrebbe ricoprire l’assurdo sistema di produttività pubblico. E si continuerà col gioco del piccolo manager, come del resto dimostra il d.lgs. 74/2017. E si insisterà sulla contrattazione decentrata, i sistemi di valutazione, gli Oiv, le fasce e le non fasce. Il tutto, mentre alla Corte dei conti ed ai servizi ispettivi non va mai bene niente su quanto si stanzia per la produttività, su come lo si contratta e su quando lo si ripartisce, con incredibili contrasti di vedute tra la magistratura contabile ed il giudice del lavoro, per il quale basta che un contratto decentrato risulti stipulato per fare da titolo legittimo a istituti e connessi pagamenti, invece considerati come la peste bubbonica dalla magistratura contabile.
E tutto questo, per ripartire mediamente, nel comparto regioni enti locali, poco meno di 2mila euro lordi l’anno, con un dispendio di energie lavorative infinitamente più oneroso, roba che nessuna azienda privata si sognerebbe mai di fare e che condurrebbe al licenziamento in tronco del manager che lo proponesse.
La Corte Costituzionale ha suonato la sua campana. Difficilmente la PA saprà comprendere che essa suona, fortissimo, per lei e che le bassissime cifre della produttività sarebbe molto più economico ed efficiente ripartirle con una quattordicesima, connessa alla verifica banale del rispetto di indicatori di bilancio, automaticamente elaborati, senza alcun piano assurdo e senza nessun onerosissimo Oiv.
Casatenovo: la ”sindrome da stanchezza cronica” raccontata da Lucia.
La CFS – Sindrome da stanchezza cronica o ME – Encefalomielite mialgica è una sindrome rara, molto complessa ma ancora poco conosciuta al di fuori degli ambienti accademici.
“Si tratta di una patologia molto difficile da diagnosticare. Ad oggi non esiste un vero e proprio test diagnostico”, ci ha spiegato Lucia, nome di fantasia di una cittadina casatese che ha voluto raccontarci la sua storia: come lei, in Italia, altre centomila pazienti sono affette da CFS.
E il percorso verso la diagnosi è stato lungo e difficile. “Ho ricevuto la diagnosi recentemente, dopo sette anni di visite, passando da uno studio medico all’altro, sottoponendomi ad esami più disparati e, talvolta, costosi”.Lucia, sposata con due figlie, è sempre stata una donna sana, attiva, solare. “Ho iniziato ad avvertire qualche cambiamento dopo la seconda gravidanza. C’erano giorni in cui facevo più fatica a muovermi, in cui ero stanca e spossata. Avevo dolori muscolari anche nello svolgimento delle attività quotidiane più semplici, come mescolare in una pentola, salire e scendere le scale, schiacciare la frizione per guidare l’auto. Sintomi che dopo qualche giorno scomparivano, per poi ritornare più forti. Ho iniziato a rivolgermi a diversi medici specialisti ma i risultati degli esami erano nella norma o comunque non tali da giustificare i miei sintomi: non avevo ancora sentito di parlare di CFS”.
Una situazione di incertezza, smarrimento, angoscia. “Dire angoscia è quasi riduttivo. Mentre mi sottoponevo ad esami su esami, la malattia faceva il suo decorso: l’esordio, infatti, può essere molto grave oppure progressivo, come nel mio caso. Ci sono giorni di “crisi” e giorni in cui si sta relativamente bene. Ogni volta, però, le ricadute sono improvvise, più frequenti. Ai dolori muscolari, peggiorati da sforzi anche minimi, si aggiungono i disturbi del sonno, le crisi di respiro notturno, i mal di testa fortissimi: in quei momenti diventa difficile fare qualsiasi cosa, persino lavorare o parlare”.
Come raccontato da Lucia, i sintomi della CFS hanno forti ricadute a livello lavorativo, dell’umore, delle relazioni sociali e della qualità di vita, tutti fattori interconnessi e minati da questa stanchezza debilitante. Molti malati sono costretti a rinunciare ad una normale vita sociale, con pesanti ricadute sulla capacità lavorativa e reddituale.
“A questa diagnosi si giunge per esclusione rispetto alle altre patologie. Il neurologo che era giunto a questa conclusione non sapeva però dove indirizzarmi. In Italia i centri di riferimento sono pochi, alcuni sono stati chiusi per mancanza di fondi. Ho quindi cercato in internet e mi sono messa in contatto con l’Associazione Malati CFS Onlus, nata a Pavia nel 2004. È tra le associazioni più attive in questo ambito e molti volontari sono del nostro territorio: la presidentessa Roberta Ardino abita a Como. Ho partecipato all’assemblea annuale dei soci e mi sono accorta di tutto l’impegno dell’Associazione, oltre a venire a contatto con storie di grande sofferenza, soprattutto che riguardano ragazzi in giovane età”.
La CFS è una patologia che colpisce soprattutto le donne, ma sono sempre più numerosi anche i casi tra gli adolescenti. Attualmente non ci sono cure e non si è ancora scoperta una causa certa. Tra gli obiettivi dell’associazione Malati CFS Onlus, oltre alla ricerca, c’è la formazione e l’informazione della classe medica, ma anche della popolazione: una diagnosi precoce può portare al contenimento di alcuni aspetti. Tutto questo è finanziato tramite le quote associative dei soci e la raccolta fondi tramite il cinque per mille.
Da circa un anno è stato anche avviato un progetto curato dalla Comunità Europea: la ricerca viene svolta dalla dott.ssa Enrica Capelli presso l’Università di Pavia e quasi totalmente finanziata con i proventi dell’Associazione.
“La diagnosi spaventa: non ci sono cure e non si sa a cosa si va incontro. Ma ciò che fa più male non è il dolore: è non sentirsi considerati come pazienti, non sentirsi capiti anche dai propri familiari. Apriamo gli occhi sul fatto che questa malattia esiste e che ci sono persone che ne soffrono e vanno aiutate”.Per informazioni: www.associazionecfs.it
Roberta Beretta Ardino 3495614387 ardinoroberta@gmail.com
Marina Gasparotto 0362500264 marina59@libero.it
Dal terrore al reincontro – il coraggio di riscattarsi
? lo sono Elena, un’insegnante di scuola superiore.
Ho iniziato il progetto “Il carcere entraascuolalescuoleentrano in carcere” circa dieci anni fa. Facevo la supplente in una scuola di Padova: Un giorno, in sala insegnanti trovai la rivista “Ristretti” e fui catturata dal progetto che alcunecolleghe seguivano. In seguito, lo proposi in un’altra scuola in cui ho insegnato.
Oggi i membri della redazione di Ristretti che ho conosciuto in quel periodo non sono più in carcere: Nicola, Marino, Elton, Maurizio, Sandro, Dritan, Andrea e altri ancora… sono tutte persone che ricordo con emozione e affetto, come le loro storie che ho avuto modo di conoscere.
La mia storia è molto semplice. Il secondoanno in cui, insieme al collegadi religione,abbiamo proposto il progetto a scuola, mentre ascoltavo con attenzione il raccontodi Nicolaeledomande degli studenti, incuriositi dal suo raccontodi rapinatore,qualcosa è scattato in me, così forte da to- gliermi il respiro, lì in classe.
Nella mia mente era riaffiorato un episodio precedente di qualche anno in cui io ero stata usata come ostaggio in una rapina in banca. Avevo rimosso l’episodio come qualcosa di bruttissimo che mi era capitato per sfortuna edi cui non volevo più parlare. Credevo fosse superato. Invece no. L’angoscia provata in quegli attimi, la pistola puntata al la testa, le grida, gli spintoni, la paura di morire per mano di un uomo che non sapeva nulladi meeper il quale io non contavo nulla: tutto riemerse con prepotenza, facendomi quasi esplodere il cuore dall’agitazione. Ricordo come fissai Nicolacon rancoreecomin- ciai a chiedergli che cosa aveva provato lui atenere un ostaggio. Gli chiesi se si era mai chiesto come stessero le persone usate durante le rapine. Ero furiosa. Lui rimase pietrificato e quasi senza parole. Ricordo solo che aliatine del l’incontro, faccia a faccia, quasi si scusò lui perquell’altro rapinatore che mi aveva usato. Ricordo che mi mise un braccio intorno alle spalle, quasi a proteggermi. Fu un’emozione forte, per entrambi.
Daqui nacque un confronto molto bello con lui e con altri detenuti che avevano commesso delle rapine, uno scambio in cui io e loro abbiamo messo in tavola i nostri sentimenti e la nostra umanità.
Ricordo quanto fui “piccola” in quell’occasione, lo che amo vivere nella legalità persi la ragione e non fui fiera di me stessa. Lì, dentro al la banca, dove tutti erano terrorizzati, io quasi mi nascosi e, nel mio cuore, mi augurai che prendessero qualcun altro per
scappare. Ecco, non importava chi fosse. C’era anche una signora incinta, lo mi augurai che prendessero lei, non me. Ma presero me ancora. Perfortunami lasciarono subito fuori dalla porta. E ancora, alle domande dei carabinieri io risposi ma nel mio cuore mi augurai che non li prendessero mai quei rapinatori. Temevo, nella mia ignoranza di allora, che avrei dovuto testimoniare contro di loro e avevo paura.
Ora ritorno sempre con grande emozione in carcere, partecipo al progetto e cerco di coinvolgere soprattutto quegli studenti più esuberanti o pieni di pregiudizi per fa re conosce re le sto ri e e I e umane vicissitudini che hanno portato i detenuti nellasituazione di dover scontare una pena. L’ultimo incontro,quiainizio maggio è stato molto toccante. Ricordo, in particolare, due parole: “sentimenti” e “sogni”. Due bellissime parole. E poi, le storie che abbiamo sentito hanno anche parlato della scuola, dell’importanza di trovare l’insegnante gi usto, che sapesse capi re quei bambini oquegli adulti in momenti difficili. Proprio perché, appunto, “nessuno cambia da solo”.
Mi sono spesso chiesta cosa provino quei delinquenti che uccidono senza pensare che la persona ammazzata magari ha una famiglia, dei figli, una moglie, una madre, un padre. Ecco, penso spesso al dolore di chi resta ad affrontare l’abisso pauroso della perdita di una persona cara. In quest’ultimo incontro ho avuto una risposta: spesso “non provano sentimenti”, ci hanno detto i detenuti, perché la legge della strada o di certi quartieri difficilissimi insegna a focalizzarsi su altro. Ma come fanno questi bambini, ragazzi, uomini a non provare sentimenti? Forse, mi sono detta io, è solo che sulla loro strada non hanno trovato qualcuno che li sostenesse, li capisse, a scuola, nella quotidianità. 0 forse, erano talmente circondati dal “brutto” cheeraimpossibilesognare. Ma come si fa a vivere senza sogni? Alcuni detenuti hanno detto che ora, dopo avere rielaborato la loro storia, si sono assunti le proprie colpe e non si sentono più vittime.
Ma io, durante rincontro, facevo fatica a non pensare che q uei bambini che erano stati un tempo, non fossero altro che delle vittimedell’ambienteorrendoin cui erano cresciuti, vittime di quellascuolachenon li aveva saputi capire, vittime anche a volte della brutalità di chi ha arrestato una madre portandola via a un bambino di 8 anni durante la notte. Cosa potrà nascere da tanta violenza e squallore?
Ricordo che in quel momento, dentro di me ho fissato a lungo quel detenuto che raccontava questi fatti e abbracciato forte il bambino chelui non era più,che non ha potuto essere. Ho pensa- toallasuainfanzia violata. Ho pensato ai miei figli: cosa avrebbero provato? I bambini sono sempre bambini siache nascano a Padova sia che nascano nelle squallide periferie di Napoli. Vittime? lo mi sono detta che quel detenuto era stato, da bambino, solounavittimadi un sistema del male che era molto più grande di lui e che lui da bambino non aveva saputo riconoscere e neanche aveva trovato i mezzi per difendersi.
Da insegnante ho anche apprezzato la grande importanza che tutti hanno dato alla scuola, allo studio comestru mento per elevarsi al di sopra del la bruttezza in cui erano cresciuti o in cui si erano imbattuti. Ricordo gli occhi vivaci e sorridenti di un detenuto e l’enorme gratitudine che si avvertiva lui provava nei confronti di una maestrache, in carcere, lo aveva avvici nato al la scuola da lui in precedenza tanto detestata e la dolcezza con cui questa gli avesse fatto capire che anche lui era un essere speciale e che poteva fare altro, molto di più edi meglio.
Miètornatain mente unafrase che sta attaccata alla lavagnetta magnetica della mia cucina, giusto perché nessuno di casa possa passare di lì e non leggerla. È una frase di Nelson Mandela che dice: «L’educazione è l’arma più potente chesi possa usare percambia- re il mondo», lo ci credo.
Dentro di me si è radicata l’idea che la redazione di “Ristretti” sia una scuola di vita, di umana fragilità e di coraggio: il coraggio del riscatto.E a ogni incontro con gli studenti propone sempre grandi insegnamenti, fa aprire gli occhi ai ragazzi nei confronti di quello che hanno e che spesso sottovalutano, come la scuola.
Elena B. insegnante
Scoprendo Forrester.
Caro Jamal, un tizio che conoscevo una volta scrisse che noi abbandoniamo i nostri sogni per paura di fallire o, ancora peggio, per paura di aver successo. Devi sapere che io ero sicuro fin dal principio del fatto che tu avresti realizzato i tuoi sogni, ma non immaginavo che anch’io avrei di nuovo realizzato i miei. I tempi cambiano, giovanotto, e anche se ho dovuto attendere l’inverno della vita per vedere le cose che ho visto in quest’ultimo anno, non esiste dubbio alcuno che avrei aspettato a lungo e inutilmente se non fosse stato per te.
Quelle donne meravigliose.

La vita.
Da un post di Silvia sul suo profilo Facebook, scritto nel 2011 e ri-condiviso oggi.
l’errore che si fa sempre è quello di credere che la vita sia immutabile, che una volta preso un binario lo si debba percorrere fino in fondo. Il destino invece ha molta più fantasia di noi. Proprio quando credi di trovarti in una situazione senza via di scampo, quando raggiungi il picco di disperazione massima, con la velocità di una raffica di vento tutto cambia, si stravolge, e da un momento all’altro ti trovi a vivere una nuova vita…
La puntata di “Tutta salute” con la dr.ssa Bazzichi sulla ME/CFS
Qui il link alla trasmissione:
http://www.raiplay.it/video/2017/03/Tutta-Salute-84d85eb0-d560-438b-9623-a64587d6a4c8.html
Il giorno di Luciana.

Mononucleosi e fatica debilitante.
Il ciclista Mark Cavendish , vincitore per 30 volte del Tour de France, ha la glandular fever (mononucleosi), causata dal virus Epstein Barr e per questo si è temporaneamente ritirato da ogni attività agonistica non si sa per quanto.
La mononucleosi nella fase acuta della malattia dà una estrema stanchezza e in casi rari può avere gravi complicazioni (spappolamento della milza, epatiti fulminanti, ecc.) . Una stanchezza molto forte che può durare fino a sei mesi. Se dopo sei mesi questa non scompare, insorge una malattia debilitante, la ME/CFS, sindrome da fatica cronica / encefalomielite mialgica.