Caro diario, finalmente trovo il tempo per scrivere. che contento sono di scrivere il mio diario!!! oggi è venerdì, stamattina stavo davvero male, penso di avere un po’ di febbre. e’ da una settimana che mi tormenta il mal di gola…ho provato di tutto…aulin, colluttorio froben, e così via… non sono peggiorato, ma nemmeno migliorato. marco mi riempie di parole perchè continuo a usare la moto anche se non sto bene, ma prendere l’auto, con il cantiere per spostare l’ossigenodotto a padova est (lavori preparativi per il cavalcavia) e il traffico che c’è, non è proprio il caso . oggi pomeriggio poi la Polo (c’è il blocco del traffico per le auto non catalitiche tutti i giovedì e venerdì fino a marzo 2004) serve ai miei: alle 16 ci troviamo alla Edilcostruzioni a Torre per vedere un possibile appartamento in una palazzina da sei unità….129.000 euro, ma alle quali vanno aggiunte iva, notaio, allacciamenti, e non sarà pronta che tra un anno.

l’importante però è andarci e sapere chi costruirà e cose varie. anche se non so molto convinto mi voglio impegnare questo week-end per la casa. marco domattina lavora e quasi quasi vorrei andare a vedere anche un appartamento che vende un vicino di casa di Maurizio della Silvia…vuole uno sproposito ma chi lo sa….

non vedo l’ora di stare con Marco. spero di stare meglio….vorrei prendere il thè che mi ha consigliato ma vorrei anche fare la spesona dell’aerosol con ultrasuoni…quasi 90 euro ma serve per generazioni e generazioni…..caro diario, sono contento di come vanno le cose a casa negli ultimi giorni. c’è un clima più sereno.

io e marco ogni tanto bisticciamo perchè abbiamo due mondi diversi e punti di vista molto differenti, ma stiamo bene insieme. ciaoooo

TROPPE LACRIME DI COCCODRILLO

È inutile e ipocrita piangere ora lacrime di coccodrillo sui militari italiani morti nell’attacco di Nassirya e continuare a raccontarsi la favola convenuta dei nostri soldati che sono in Iraq per portarvi l’ordine, la pace, la democrazia, il benessere. Può darsi che noi li si veda così, ma così non li vede, con tutta evidenza, una buona parte degli iracheni che li considerano per quello che realmente sono: truppe straniere che occupano il loro territorio, alleate di chi li ha bombardati, devastati, invasi, ha instaurato un protettorato nel loro Paese e ora pretende di deciderne le istituzioni, il governo e il futuro.

L’attentato di Nassirya non è un atto terroristico, "vile e ignobile" come ha detto il Capo dello Stato e come ripetono talmudicamente tutti i media nazionali (terrorismo sì ha quando sono colpiti primariamente civili inermi), ma di guerriglia che ha preso di mira un obbiettivo militare, guerriglia che è stata sempre praticata dai movimenti partigiani, noi italiani compresi quando eravamo occupati dai tedeschi. Perché bisognerebbe finirla anche con l’altra favola che questi atti sono opera esclusivamente dei residuali seguaci di Saddam e degli uomini di Al Quaeda. Un tale stillicidio, sistematico e quotidiano, di attacchi, di attentati, di cecchinaggi, di mine messe al posto giusto non può avvenire senza un consistente appoggio della popolazione locale. Tanto che i responsabili o i fiancheggiatori o i basisti non vengono mai trovati, perché la popolazione non li denuncia. Può benissimo darsi che l’attentato di Nassirya sia opera di elementi "venuti da fuori", di "feddayn Saddam" o di yemeniti, ma in una realtà sostanzialmente tribale come quella, con un controllo sociale fortissimo, gli elementi estranei, per giunta con atteggiamento sospetto, si riconoscono lontano un miglio. E quindi vuol dire che molti abitanti della zona sapevano o hanno capito quanto stava per accadere, ma sono stati zitti, e che è molto probabile che alcuni di loro abbiano fornito le informazioni logistiche senza le quali un attentato del genere non può riuscire.

È vero però che, con la pretesa di combattere il terrorismo, siamo riusciti nell’impresa di fare dell’Iraq il covo privilegiato del terrorismo internazionale. L’Iraq di Saddam Hussein non ospitava terroristi "alla Bin Laden" (che il Saddam pre-guerra odiava, cordialmente ricambiato) per la semplice ragione che una dittatura di quel genere non tollera sul proprio territorio altri poteri che potrebbero sfuggire al suo controllo. E infatti non c’era un solo iracheno nei commandos che attaccarono le Torri Gemelle e non è stato trovato un solo iracheno nelle cellule di Al Quaeda, reali o presunte, che sono state via via scoperte (ci sono arabi sauditi, giordani, egiziani, tunisini, yemeniti ma non iracheni). Oggi che l’Iraq è una "terra di nessuno", fuori da ogni controllo, diventa un ricettacolo ideale per i terroristi internazionali che vi accorrono da tutte la parti e vi trovano spazio, appoggi e bersagli fissi da colpire con tutto comodo.

Guerre sciagurate, del tutto immotivate, come quella mossa all’Iraq, partendo da un presupposto, o piuttosto da un pretesto, le "armi chimiche", che si è rivelato completamente falso e un trucco antidemocratico per ingannare le opinioni pubbliche, non le si dovrebbe mai fare né appoggiare. Ma una volta che ci si è dentro non si può tirarsi indietro. Innanzitutto proprio per rispetto dei soldati periti nell’attentato, perché vorrebbe dire che li abbiamo mandati a morire per una causa di cui il governo, per primo, non era convinto. Poi per rispetto dell’alleato angloamericano che, nel dopoguerra, ha già perso quasi trecento uomini. O vogliamo interpretare l’eterna parte degli italiani che, al momento del dunque, se la squagliano, come facemmo con i tedeschi nel 1943?

Però chi ha deciso di fare questa guerra a fianco dell’"amico americano", contro la volontà della stragrande maggioranza della popolazione italiana cui ora si chiede unità, deve assumersene tutte le responsabilità. Anche dei diciannove poveri morti dell’altro giorno

Ferrovie svizzere

Io che continuo a vedere uno scadimento del servizio ferroviario in Italia (sia in termini di puntualità che di tempi di percorrenza , per non parlare della pulizia), ho visto che anche in Svizzera le cose non vanno per niente bene. Ecco cosa ho trovato poco fa in Internet, dopo aver visto sul sito di trenitalia che in Austria c’è uno sciopero dal 12 novembre fino a "nuovo avviso"….

Comunicato Stampa

1.- Denunciamo lo smantellamento progressivo del servizio pubblico delle ferrovie, per successivamente privatizzarle.

Condanniamo e rifiutiamo il tentativo di privatizzare un servizio di trasporto che dovrebbe avere principalmente un uso sociale ed ecologico adducendo motivazioni di costi, ma che in realtà si sta trasformando in un ulteriore possibilità di arrichimento per le solite poche persone che in questo periodo cosidetto di "crisi" fanno guadagni record (licenziando i lavoratori), mentre la stragrande maggioranza della popolazione subisce solo le conseguenze negative di questa "crisi".
La privatizzazione delle ferrovie, cade dopo 150 anni in cui i costi della costruzione della rete ferroviaria sono già stati pagati ed ormai completamente ammortizzati dai cittadini.
Un vero affare quindi la privatizzazione delle ferrovie, per i soliti avvoltoi, i quali in nome del profitto, non esiteranno un istante a licenziare drasticamente a discapito della qualità del servizio.
Esprimiamo quindi piena solidarietà ai lavoratori e lavoratrici delle ferrovie che avranno il coraggio di opporsi fermamente alla privatizzazione delle FFS, che peraltro é già iniziata in alcuni settori.

2.- Trasporti gratuiti a tutte quelle categorie sociali che stanno pagando i costi della "crisi"

Le categorie che in questo momento stanno sopportando i costi della "crisi", le si vuole penalizzare ulteriormente imponendo prezzi esorbitanti dei biglietti, che di fatto contribuiscono all’esclusione sociale di queste persone.
Studenti, pensionati, lavoratori, disoccupati tutte persone che per usufruire del treno devono fare i salti mortali per potersi permettere di viaggiare in modo ecologico, sia per andare a studiare, lavorare o semplicemente andare a trovare parenti o amici lontani, o ancora manifestare il proprio dissenso.
Soprattutto in questo periodo, rivendichiamo la libertà di usufruire gratuitamente dei mezzi di trasporto pubblici per tutte queste categorie di persone. E che non ci si venga a dire le solite balle sul deficit pubblico, poiché siamo stufi di leggere sui giornali che pochi individui schifosamente ricchi ingrassano come non mai (vedi utili record Novartis, UBS, Nestlé), mentre la popolazione é costretta a pagare i disastri causati dalle famigerate ristrutturazioni. Insomma, che i soldi si prendano da chi ce li ha.
Oggi, nella giornata del primo maggio, giorno di festa e lotta mondiale, rivendichiamo il diritto di manifestare il nostro dissenso verso chi vuol far pagare i costi della "crisi economica" alle categorie più deboli e sfavorite, viaggiando gratuitamente per questo breve tratto di viaggio.

Denunciamo la crescente povertà e rivendichiamo il diritto di avere servizi accessibili a tutti.
Siamo il risultato di una vostra politica neoliberista che in nome della globalizzazione svende tutto ciò che c’è da svendere e chi ci guadagna sono sempre quei pochi.

Siamo quegli emarginati che voi avete creato e che ora si sono autorganizzati e che ora hanno voglia finalmente di urlare il proprio dissenso e di cominciare a lottare duramente.

collettivotrenokkupato

Lorenzo di tapoliano scrive…

Ciao Fable!
Come promesso eccoti qua un po’ di foto. Non te ne mando di più altrimenti sto mezzora a spedirle. Comunque ho intenzione di farne stampare un poche anche per vedere come vengono fuori le foto della mia digitale quindi magari te le farò vedere tutte quando ce le avrò su carta.
In queste puoi vedere:
– la bellissima (a mio parere) cattedrale della Sagrada Familia imponente come te la trovi davanti appena uscito dalla metropolitana di Barcelona, a qualcuno non è piaciuta
– noi con altra gente di Udine più altra gente conosciuta là a zonzo per il centro di Zaragoza, la città mi è piaciuta molto, è molto vivibile e moderna, con marciapiedi enormi e tenuta benissimo e certamente molto più pulita delle città italiane
– il padiglione della fiera di Zaragoza dove dormivamo nei nostri sacchi a pelo per terra insieme ad altre 900 persone!
– infine io e mio fratello insieme ai nostri due amici di Zaragoza, conosciuti quest’estate e ritrovati là
 
Per domenica conto di essere in TNT comunque in caso ci sentiamo. Voi fate anche l’after?
 
Lorenzo
P.S. Trovate le foto all’indirizzo http://www.fable.it/public/gallery/Index.php?spgmGal=foto_spagna_lorenzo_tnt

Il policlinico dei miracoli

05.11.2003 Policlinico "dei miracoli". Regalo da 50 milioni di euro dal governo all’Opus Dei di red Cinquanta milioni di euro, qualcosa come cento miliardi di vecchie lire, un quarto circa di tutto ciò che lo Stato darà a tutti gli atenei italiani. Verranno dati dalla Finanziaria in corso d’approvazione a un solo ateneo, privato, per la realizzazione ex novo di un policlinico. I cinquanta milioni saranno erogati pronta cassa in due tranche – una nel 2004 e una nel 2005 – metà dal ministero dell’Economia e metà da quello della Salute per finanziare il progetto di una università privata, quella dell’Opus Dei. Una cifra enorme, o per dirla con le parole di Paolo Giaretta, il relatore dell’opposizione sulla Finanziaria al Senato, «un’enormità». Il relatore dell’Ulivo, che è della Margherita, ha definito «gravissimo» lo stanziamento di questi 50 milioni di euro per la costruzione di un campus biomedico, approvato dalla Commissione Bilancio di Palazzo Madama. «Basti pensare -fa notare Giaretta- che il totale del fondo per gli interventi a favore di altre 65 Università ammonta a 238 milioni di euro e che, per l’intera riforma della scuola sono stati stanziati 90 milioni di euro». È proprio questo il dato che colpisce l’attenzione. I fondi sono infatti stanziati ad una università privata mentre gli stanziamenti a favore di università pubblica e ricerca continuano infatti a diminuire, come denuncia il senatore Luciano Modica, ex rettore dell’ateneo di Pisa. E i rettori hanno già minacciato di protestare duramente, proprio come avvenne l’anno scorso quando si dimisero in massa. È vero che il campus biomedico dovrà convenzionare con il servizio sanitario nazionale almeno parte dei suoi 350 nuovi posti letto da costruire nell’area di Trigoria (su terreni in parte regalati e in parte venduti da Alberto Sordi). Ma è anche vero che i cinquanta milioni vengono offerti ad un’organizzazione come l’Opus Dei con agganci importanti nei santuari della finanza vaticana e con casse molto floride, costantemente rimpinguate da donazioni e dai proventi delle molteplici attività anche di tipo assistenziale diffuse in tutto il mondo. Dunque l’Opus Dei ha davvero bisogno di un così ingente contributo statale? E lo stato della sanità pubblica nel Lazio, esempio di punta di una gestione disastrosa del sistema sanitario nazionale, su cui si riversano anche molti dei malati provenienti dalle regioni del Sud, trova qualche giovamento dal fatto che una simile cifra venga destinata alla costruzione di una struttura medica privata? Il campus biomedico dovrebbe essere pronto nel 2006. A Roma secondo Giulia Rodano, consigliere regionale diessina, oggi i tagli alla sanità sono arrivati a un punto limite, tanto che in un grande ospedale pubblico come il San Camillo manca il latte fresco, gli omogenizzati e non è più possibile fornire ai ricoverati una dieta con prodotti freschi come la bistecca e il pesce. In Puglia il governatore Fitto è alle prese con nuove proteste dei cittadini per la chiusura di importanti reparti di chirurgia e di servizi ospedalieri. In Sicilia il governatore Cuffaro propone, per aggirare i tagli, la possibilità alle aziende sanitarie siciliane di vendere all’asta i propri beni alle banche, compresi gli ospedali: una specie di «sanità in leasing» come denuncia il senatore diessino Angius. Infine il presidente della regione Emilia-Romagna, Vasco Errani, denuncia che i tagli della Finanziaria mettono a serio rischio la realizzazione dei nuovi ospedali, tra cui quello, pubblico, di Parma. Lo stesso Girolamo Sirchia, ministro della Sanità, ha ammesso che per l’apertura dell’ospedale di Parma si dovrà aspettare ancora «un anno o due». Ma lo Stato intanto finanzia per un terzo l’apertura in tempo record del policlinoco dell’Opus Dei (il costo complessivo dell’ospedale di Trigoria è infatti di 157 milioni di euro). «Non si gestisce così il denaro pubblico» Ascolta il senatore Paolo Giaretta della Margherita

Pioggia

Ciao a tutti, come va ? Queste giornate di pioggia non sono il massimo per nessuno (soprattutto per chi come me scorazza in città in moto), però presto passeranno . Week-end di festa (ma anche di ricordi) per questo ponte, io lo passerò questa sera in discoteca al TNT, mentre il giorno successivo darò un’occhiata a come costruire un firewall in Linux (ne abbiamo parlato nell’ultimo convegno Hacker e Virus in Camera di Commercio). Non so quanta voglia avrò, speriamo bene !

Ho conosciuto anche in chat una ragazza brasiliana che verrà presto in Italia. Si chiama Paloma , e sa molto bene l’italiano. Ben arrivata su questo sito!

Caro diario…è davvero da troppo tempo che non scrivo, e mi dispiace. sono almeno quattro le volte in cui volevo farlo ma non avevo tempo. male, male , male !

come va la mia vita: tutto bene al lavoro, ho soddisfazioni e credo che il tecnico informatico sia il mio lavoro. pochi giorni fa il capo ufficio stipendi mi ha proposto di andare a lavorare da loro. Secondo me è un segno di riconoscimento e io spero di fare sempre bene il mio lavoro. mercoledì scorso il dottor Surace mi ha tolto dall’occhio sinistro quella fastidiosa cicatrice…oggi ho nove ore e ho dimenticato il collirio a casa, e gli occhi in fiamme, ma miglioro di giorno in giorno. tutti i colleghi si sono prodigati per sapere come sto, al’ufficio personale sono stati carinissimi con buoni pasto e orari vari, sono davvero contento qui.

a casa….. a casa oramai non c’è quasi più rapporto….l’ennesima cazzata l’altro giorno per via della casa. mio padre come sempre cambia idea ogni giorno…dice tutto e il contrario di tutto…e sinceramente sono stanco, stanco di sentirlo e di vederlo. coi suoi umori condiziona la vita di tutti….vabbè c’è di peggio, l’ultima è stata una considerazione, peraltro sacrosanta, che dato che i soldi per la casa non sono miei, non posso fare quello che voglio.

peccato che solo un mese fa mi dicesse che devo andarci a vivere io e la decisione finale spettava a me e solo a me.

parole, parole, i fatti sapevo già quali sarebbero stati. la cosa che mi verrebbe da fare sarebbe di usare i soldi che ho fare un mutuo e prendermi un monolocale: in futuro, quando avrò deciso un po’ di cose sulla mia vita, potrò affittarlo, e magari andare in un posto più grande. mai fare il passo più lungo della gamba.

ma ogni qual volta si avvicina il momento di andare via (magari perchè le agenzie ci propongono qualcosa di accettabile sia come prezzo che posizione) , provo ad immaginare che io sia a vivere da solo e tornare a casa la sera da solo.

vorrei ci fosse Marco, ma non può essere. non vorrei ci fosse qualcun altro, perchè sto bene con lui. vabbè.

so solo che non voglio più tornare a casa per sentire le sue solite considerazioni, tutto e il contrario di tutto, ansie e paure, scelte fatte e non fatte……paure che ha riversato su di me e che io tento, non so con che successo, di togliere e di cambiare nella mia vita. e mamma soffre.

mamma soffre e io soffro per il comportamento di mamma nei confronti di marco. sono sicuro che un giorno capirà, ne sono certo. forse quando sarò andato via di casa. ci vuole tempo. il tempo cancella tutto, anche le cose più brutte, figuriamoci queste.

io e marco: sono contento di questi mesi trascorsi, siamo molto diversi e non so quando si tratterà di conciliare le mie passioni (conoscere persone nuove, girare, studiare, andare in palestra) con le sue esigenze di bilancio (non muoversi, accumulare risparmi e spendere in cibo e vestiti) , cosa succederà. finora abbiamo sempre trovato un compromesso , siamo stati vicino a casa mia o casa sua, boh…. io vorrei tanto tornare a Roma , prendere un venerdì e visitare Londra o un posto a caso, con un last minute. per vedere mondi diversi, provare le lingue, fare esperienze nuove.

la sua azienda non muore se lui lavora un giorno in meno: e soprattutto quando dovrà licenziare , licenzierà anche lui, anche se per ultimo. io domani perdo 50 euro per difendere la pensione futura mia e anche sua , a lui fanno comodo i soldi. anche a me. ma non siamo tutti uguali. e io gli voglio un bene dell’anima perchè sa essere tanto dolce e coccolo. e il suo sorriso mi riempie di gioia.

Il campo di concentramento fascista di Gonars

Quel gioco truccato di riscrivere la storia Non si fa un passo avanti nella convivenza civile se si continua con l’impostura che il peso dei morti possa cambiare le responsabilità dei vivi Ogni tanto, secondo gli opportunismi della politica, riprende il gioco sui morti, un gioco truccato perché i morti non possono parlare e li si può usare come si vuole. Fanno parte del gioco dei morti le continue provocazioni dei vivi, neo o post fascisti, di abolire la festa del 25 aprile per sostituirla con una che metta sullo stesso piano partigiani e sostenitori di Salò e, a Venezia come a Trieste, ogni settimana c’è chi chiede di celebrare le vittime della ferocia titina. Senza distinzione alcuna fra chi era per la libertà e la democrazia e chi per difendere fino all’ultimo il totalitarismo. Il tutto senza ricordare e considerare minimamente il contesto storico che vale anche per i morti, che i morti non possono ricordare, ma la storia sì. Mi scrive da Udine la storica Alessandra Kersevan: "Non so se ha mai sentito parlare del campo di concentramento fascista di Gonars: fu il più grande campo di concentramento per internati civili jugoslavi al di qua del vecchio confine gestito dal Regio esercito. Al di là c’era il campo di Arbe Rab ancora più grande e tragico. Dalla primavera del 1942 al settembre del ’43 vi furono internati in condizioni indicibili 6 mila persone, uomini donne, vecchi e bambini. Vi morirono in 500, la gran parte nell’inverno 1942-43 per la fame, il freddo, le malattie". Se ne parlerà in un convegno di studiosi sloveni e italiani. L’argomento dei campi di concentramento fascisti è pochissimo conosciuto a livello di opinione pubblica ed è per questa scarsa conoscenza che personaggi come il primo ministro Silvio Berlusconi possono dire che Benito Mussolini mandava i suoi oppositori in vacanza. Il gioco dei morti è francamente inaccettabile quando risponde a un opportunismo politico come quello attualissimo dei neo fascisti, nipotini di Salò, e allievi di Giorgio Almirante, attualmente al governo della Repubblica democratica. Ed è inaccettabile anche l’uso sacrale che si fa dei morti per dimostrare che le idee per cui morirono gli uni valgono come quelle per cui morirono gli altri. Nel caso italiano non si tratta di recuperare la storia dei vinti e di correggere quella dei vincitori, ma di ricordare che se si fossero scambiati i ruoli noi non saremmo qui a parlarne, saremmo finiti in massa in qualche lager o in qualche camera a gas e per il lungo futuro del Terzo Reich noi e i nostri figli e nipoti saremmo vissuti, ove non eliminati, in una società barbarica. Altro che vaghe e passeggere distinzioni fra diverse bandiere, diverse idee, diverse utopie: la scelta era fra la schiavitù razzista e la libertà civile, fra la fedeltà cieca alla tirannia e i diritti umani. La pietà verso i morti è antica come il diritto dei loro parenti e amici a ricordarli, ma la pubblica celebrazione coinvolge un giudizio sulle loro azioni da vivi e la celebrazione di quanti, fino all’ultimo, stettero dalla parte del Reich nazista è celebrazione del nazismo. Non si fa un passo avanti verso una civile convivenza degli uomini se si continua con il gioco dei morti, con la impostura che il peso dei morti cancelli o cambi le responsabilità dei vivi. Sono morti anche loro per un ideale! Quale ideale? Mandare sei milioni di persone alle camere a gas? Ma anche nei gulag del comunismo si dice, sono morti milioni di persone forse di più e forse in modo più folle perché la maggior parte erano comunisti. Ma nell’uno come nell’altro caso la morte non è una giustificazione delle follie dei vivi.

Vajont, strage annunciata nell’Italia del boom

Il 9 ottobre di quarant’anni fa i 1910 morti di Longarone
di GIORGIO BOCCA

Soccorritori fra
le macerie di Longarone
 

SONO arrivato a Longarone, nell’alta valle del Piave, a mezzogiorno del 10 ottobre 1963, l’indomani della grande sciagura avvenuta la sera prima alle dieci e trentanove. Dove c’era un paese di duemila abitanti erano rimaste una decina di case, il resto era un immenso pianoro bianco, come se il greto del fiume si fosse allargato all’intera valle. Bianco non si capiva di cosa, forse dei muri sbriciolati, forse delle rocce sminuzzate, raschiate dalla enorme colonna di acqua piombata sul paese dalla diga del Vajont: un rombo di tuono mai udito, dopo il bagliore dei cortocircuiti, cinquanta milioni di metri cubi di acqua scagliati contro il cielo dalla frana gigantesca del monte Toc, un’onda alta settecento metri che scavalca la diga e vien giù per la gola spingendo davanti a sé un freddo vento di morte e quel rumore da fine del mondo.

Sul grande pianoro bianco come di una brina mattutina, bianco come certi paesaggi invernali dei pittori fiamminghi, si muovevano come formichine nere i sopravvissuti, gli amici e i parenti giunti dai villaggi vicini, i curiosi della morte altrui, io fra essi, che arrivano sempre per sentirsi vivi nella strage.

La sera prima nessuno avvisa del pericolo gli abitanti di Longarone e neppure quelli della frazione Spesse che sta proprio sotto la diga. Alle otto di sera si cena e sono tutti in casa, la televisione sta per trasmettere una partita di calcio. La massa di acqua si abbatte come un gigantesco colpo di maglio su Longarone, su Erto, su Casso e poi la valanga torbida, ribollente prosegue tagliando in due Castellavazzo, trascinando i morti per decine di chilometri.
Arrivo a Longarone il giorno dopo la sciagura e la sola notizia certa che posso far avere al mio giornale è che i morti sono a occhio e croce quasi duemila ma ci vorranno settimane per avere le cifre precise: 1450 a Longarone, 158 a Erto e Casso, 109 a Castellavazzo. A Longarone, a quel che resta di Longarone sono arrivati centinaia di giornalisti e sta per giungere una colonna di soccorso che i sindaci comunisti di Modena e di Reggio hanno organizzato prima di ogni soccorso dello Stato.

Così vanno le sciagure nell’Italia degli anni Sessanta, del miracolo economico: i morti giacciono sotto la coltre bianca, i vivi non riescono a capire che cosa è accaduto, perché è accaduto. Fra noi cronisti ce n’è uno solo che sappia come sono andate le cose, si chiama Mario Passi, abita a Padova, è corrispondente dell’Unità, negli ultimi tre anni avrà scritto una cinquantina di articoli sulla diga del Vajont e sui rischi mortali che fa correre alla gente nella valle del Piave. Ma sono gli anni della guerra fredda, quello che pubblica l’Unità non conta. Sul Corriere della Sera il giorno dopo la strage è apparso un editoriale intitolato: "Fatalità". Lo ha firmato un noto scrittore di Belluno che non sa niente della diga e del Vajont. Ciò che ha scritto Mario Passi sulle responsabilità degli uomini e dell’azienda elettrica Sade verrà ricordato solo cinque anni dopo al processo trasferito da Belluno a L’Aquila, il processo che dà ragione al Corriere: fatalità.

Se si rileggono le corrispondenze di Mario Passi vien fuori la storia paradigmatica di una di quelle sciagure prevedibili, previste ma tenacemente perseguite, che fanno parte della normalità italiana. I responsabili ci sono, eccome, ma tutti in qualche modo si sentono giustificati da quella grande fatalità che chiamano sviluppo e che diventerà il miracolo. C’è la Sade del conte Cini che deve pensare al rifornimento energetico di Marghera e del suo gigantesco petrolchimico, ci sono i professori dei politecnici di Padova, di Milano, di Torino che costruiscono centrali in tutto l’arco alpino e sono andati in cattedra e ci restano se vanno d’accordo con i potentati economici dell’elettricità. La Sade, la Edison, la Sip e gli altri giganti che sono i numi tutelari di una crescita tumultuosa ma eccitante.

Mi capitava di incontrarli qualche sera in casa di Guido Venosta, a Milano. C’era l’ingegner Valerio della Edison con la sua lunga faccia gotica, che con una telefonata faceva scattare sull’attenti la Borsa intera, c’erano i grandi feudatari elettrici veneziani, toscani, piemontesi che amabilmente si incontravano con quelli della Pirelli, della Fiat e del Gotha industriale conservatore. Non c’erano i loro operai che spesso in corteo li impiccavano nei cartelloni e nei fantocci, ma tutti, ricchi e poveri, padroni e dipendenti erano come avvolti dall’euforia del progresso. Per capire il Vajont serve ricordare cosa era la corporazione elettrica degli ingegneri idraulici, dei costruttori di dighe e dei loro operai, una aristocrazia del lavoro che aveva alti salari e non si sporcava più le mani con il concime di campi, indossava le tute con su il nome dell’azienda.

L’opinione pubblica era solidale con una industria che non inquinava, con una ricchezza che sembrava gratuita, l’acqua di monte che muoveva le turbine e che pareva inesauribile. In quel mondo dominava più dei padroni l’agguerrita, entusiasta, utopistica confraternita degli ingegneri idraulici, compagni di avventura dei geologi, come il progettista Carlo Semenza direttore del servizio costruzioni della Sade. Lui alla diga gigantesca del Vajont ci pensa dal 1925, quando per la prima volta è salito a Erto e Casso e ha visto il torrente Vajont scorrere limpido nella valle e poi precipitarsi nella gola che scende al fiume Piave. Ed ha visto come in sogno sorgere davanti alla gola la diga ad arco più alta del mondo, la sua Tour Eiffel. E adesso, finita la guerra, in questa Italia che si muove, che cambia, che diventa ricca, torna di frequente al Vajont, ne è affascinato e cerca il geologo che possa appoggiare il suo folle progetto. Lo trova nel vecchio professor Dal Piaz che ha una bella barba bianca, la stima dei politecnici e anche il bisogno dei pensionati: "Le confesso" , scrive a un amico "che il nuovo progetto del Vajont mi fa tremare le vene e i polsi: una diga alta 266 metri, un lago artificiale di 150 milioni di metri cubi. Ma non posso dire di no a Semenza, malgrado l’età avanzata mi trovo nella penosa necessità di integrare la assai magra pensione con proventi professionali" . Firmerà i successivi progetti sempre più audaci di Semenza, garantirà al Consiglio superiore dei lavori pubblici la loro fattibilità.

La Sade anni Cinquanta ha il pieno controllo delle risorse idriche, è la padrona delle acque che scendono dalle montagne del Veneto e del Friuli, i suoi sbarramenti a Boitre, Piave Maè, Val Gallina, fanno convergere le acque sulla potentissima centrale di Soverzene. La centrale del Vajont completerebbe il cerchio energetico. La diga è un grande rischio ma il potere della Sade è come una droga che vince tutte le resistenze. A Roma il governo amico deciderà di finanziare l’impresa con un contributo gratuito del 45 per cento.

Eppure gli avvisi della grande sciagura non mancano. Nell’autunno del ’58 il professor Dal Piaz ha visitato le sponde del bacino e ha visto delle rocce fessurate corrose. Una commissione di esperti fra cui il giovane figlio di Semenza, un geologo, accerta che sul monte Toc sta muovendosi una frana antica, in lento ma inarrestabile spostamento verso il basso. Il 4 novembre del ’60 l’annuncio del disastro prende la forma visibile di una frana di ottocentomila metri cubi che scivola nel bacino dividendolo in due. Ma l’ingegnere Semenza e la Sade non possono rinunciare alla loro grande opera.

Dopo il disastro la Sade farà uscire dalla prigione domiciliare i suoi tecnici in attesa del processo e l’Enel, dopo la nazionalizzazione, adotterà la stessa difesa: fatalità. Presa dall’euforia miracolistica, la pubblica opinione ha già dimenticato la strage e segue distrattamente il processo. I morti sono morti, Longarone è stato ricostruito a spese dello Stato, altri giganti dell’industria, altre grandi opere a rischio, altre sovvenzioni a fondo perduto assicurano la normalità italiana.