Il 9 ottobre di quarant’anni fa i 1910 morti di Longarone
di GIORGIO BOCCA
Soccorritori fra le macerie di Longarone |
SONO arrivato a Longarone, nell’alta valle del Piave, a mezzogiorno del 10 ottobre 1963, l’indomani della grande sciagura avvenuta la sera prima alle dieci e trentanove. Dove c’era un paese di duemila abitanti erano rimaste una decina di case, il resto era un immenso pianoro bianco, come se il greto del fiume si fosse allargato all’intera valle. Bianco non si capiva di cosa, forse dei muri sbriciolati, forse delle rocce sminuzzate, raschiate dalla enorme colonna di acqua piombata sul paese dalla diga del Vajont: un rombo di tuono mai udito, dopo il bagliore dei cortocircuiti, cinquanta milioni di metri cubi di acqua scagliati contro il cielo dalla frana gigantesca del monte Toc, un’onda alta settecento metri che scavalca la diga e vien giù per la gola spingendo davanti a sé un freddo vento di morte e quel rumore da fine del mondo.
Sul grande pianoro bianco come di una brina mattutina, bianco come certi paesaggi invernali dei pittori fiamminghi, si muovevano come formichine nere i sopravvissuti, gli amici e i parenti giunti dai villaggi vicini, i curiosi della morte altrui, io fra essi, che arrivano sempre per sentirsi vivi nella strage.
La sera prima nessuno avvisa del pericolo gli abitanti di Longarone e neppure quelli della frazione Spesse che sta proprio sotto la diga. Alle otto di sera si cena e sono tutti in casa, la televisione sta per trasmettere una partita di calcio. La massa di acqua si abbatte come un gigantesco colpo di maglio su Longarone, su Erto, su Casso e poi la valanga torbida, ribollente prosegue tagliando in due Castellavazzo, trascinando i morti per decine di chilometri.
Arrivo a Longarone il giorno dopo la sciagura e la sola notizia certa che posso far avere al mio giornale è che i morti sono a occhio e croce quasi duemila ma ci vorranno settimane per avere le cifre precise: 1450 a Longarone, 158 a Erto e Casso, 109 a Castellavazzo. A Longarone, a quel che resta di Longarone sono arrivati centinaia di giornalisti e sta per giungere una colonna di soccorso che i sindaci comunisti di Modena e di Reggio hanno organizzato prima di ogni soccorso dello Stato.
Così vanno le sciagure nell’Italia degli anni Sessanta, del miracolo economico: i morti giacciono sotto la coltre bianca, i vivi non riescono a capire che cosa è accaduto, perché è accaduto. Fra noi cronisti ce n’è uno solo che sappia come sono andate le cose, si chiama Mario Passi, abita a Padova, è corrispondente dell’Unità, negli ultimi tre anni avrà scritto una cinquantina di articoli sulla diga del Vajont e sui rischi mortali che fa correre alla gente nella valle del Piave. Ma sono gli anni della guerra fredda, quello che pubblica l’Unità non conta. Sul Corriere della Sera il giorno dopo la strage è apparso un editoriale intitolato: "Fatalità". Lo ha firmato un noto scrittore di Belluno che non sa niente della diga e del Vajont. Ciò che ha scritto Mario Passi sulle responsabilità degli uomini e dell’azienda elettrica Sade verrà ricordato solo cinque anni dopo al processo trasferito da Belluno a L’Aquila, il processo che dà ragione al Corriere: fatalità.
Se si rileggono le corrispondenze di Mario Passi vien fuori la storia paradigmatica di una di quelle sciagure prevedibili, previste ma tenacemente perseguite, che fanno parte della normalità italiana. I responsabili ci sono, eccome, ma tutti in qualche modo si sentono giustificati da quella grande fatalità che chiamano sviluppo e che diventerà il miracolo. C’è la Sade del conte Cini che deve pensare al rifornimento energetico di Marghera e del suo gigantesco petrolchimico, ci sono i professori dei politecnici di Padova, di Milano, di Torino che costruiscono centrali in tutto l’arco alpino e sono andati in cattedra e ci restano se vanno d’accordo con i potentati economici dell’elettricità. La Sade, la Edison, la Sip e gli altri giganti che sono i numi tutelari di una crescita tumultuosa ma eccitante.
Mi capitava di incontrarli qualche sera in casa di Guido Venosta, a Milano. C’era l’ingegner Valerio della Edison con la sua lunga faccia gotica, che con una telefonata faceva scattare sull’attenti la Borsa intera, c’erano i grandi feudatari elettrici veneziani, toscani, piemontesi che amabilmente si incontravano con quelli della Pirelli, della Fiat e del Gotha industriale conservatore. Non c’erano i loro operai che spesso in corteo li impiccavano nei cartelloni e nei fantocci, ma tutti, ricchi e poveri, padroni e dipendenti erano come avvolti dall’euforia del progresso. Per capire il Vajont serve ricordare cosa era la corporazione elettrica degli ingegneri idraulici, dei costruttori di dighe e dei loro operai, una aristocrazia del lavoro che aveva alti salari e non si sporcava più le mani con il concime di campi, indossava le tute con su il nome dell’azienda.
L’opinione pubblica era solidale con una industria che non inquinava, con una ricchezza che sembrava gratuita, l’acqua di monte che muoveva le turbine e che pareva inesauribile. In quel mondo dominava più dei padroni l’agguerrita, entusiasta, utopistica confraternita degli ingegneri idraulici, compagni di avventura dei geologi, come il progettista Carlo Semenza direttore del servizio costruzioni della Sade. Lui alla diga gigantesca del Vajont ci pensa dal 1925, quando per la prima volta è salito a Erto e Casso e ha visto il torrente Vajont scorrere limpido nella valle e poi precipitarsi nella gola che scende al fiume Piave. Ed ha visto come in sogno sorgere davanti alla gola la diga ad arco più alta del mondo, la sua Tour Eiffel. E adesso, finita la guerra, in questa Italia che si muove, che cambia, che diventa ricca, torna di frequente al Vajont, ne è affascinato e cerca il geologo che possa appoggiare il suo folle progetto. Lo trova nel vecchio professor Dal Piaz che ha una bella barba bianca, la stima dei politecnici e anche il bisogno dei pensionati: "Le confesso" , scrive a un amico "che il nuovo progetto del Vajont mi fa tremare le vene e i polsi: una diga alta 266 metri, un lago artificiale di 150 milioni di metri cubi. Ma non posso dire di no a Semenza, malgrado l’età avanzata mi trovo nella penosa necessità di integrare la assai magra pensione con proventi professionali" . Firmerà i successivi progetti sempre più audaci di Semenza, garantirà al Consiglio superiore dei lavori pubblici la loro fattibilità.
La Sade anni Cinquanta ha il pieno controllo delle risorse idriche, è la padrona delle acque che scendono dalle montagne del Veneto e del Friuli, i suoi sbarramenti a Boitre, Piave Maè, Val Gallina, fanno convergere le acque sulla potentissima centrale di Soverzene. La centrale del Vajont completerebbe il cerchio energetico. La diga è un grande rischio ma il potere della Sade è come una droga che vince tutte le resistenze. A Roma il governo amico deciderà di finanziare l’impresa con un contributo gratuito del 45 per cento.
Eppure gli avvisi della grande sciagura non mancano. Nell’autunno del ’58 il professor Dal Piaz ha visitato le sponde del bacino e ha visto delle rocce fessurate corrose. Una commissione di esperti fra cui il giovane figlio di Semenza, un geologo, accerta che sul monte Toc sta muovendosi una frana antica, in lento ma inarrestabile spostamento verso il basso. Il 4 novembre del ’60 l’annuncio del disastro prende la forma visibile di una frana di ottocentomila metri cubi che scivola nel bacino dividendolo in due. Ma l’ingegnere Semenza e la Sade non possono rinunciare alla loro grande opera.
Dopo il disastro la Sade farà uscire dalla prigione domiciliare i suoi tecnici in attesa del processo e l’Enel, dopo la nazionalizzazione, adotterà la stessa difesa: fatalità. Presa dall’euforia miracolistica, la pubblica opinione ha già dimenticato la strage e segue distrattamente il processo. I morti sono morti, Longarone è stato ricostruito a spese dello Stato, altri giganti dell’industria, altre grandi opere a rischio, altre sovvenzioni a fondo perduto assicurano la normalità italiana.