I furti di denaro pubblico in Veneto . Non solo Mose.

Mevorach ribalta la frittata: «Mai dato soldi a Claudia Minutillo, mai detto a Galan di averlo fatto. Al contrario è che mi ha chiesto in più occasioni di corrispondergli somme di denaro. Io non ho mai aderito e in ragione di ciò mi ha più volte apostrofato in modo poco simpatico». Mevorach è di famiglia ebrea, si può intuire il tipo di apostrofo.
«Volevo sviluppare un mio progetto con l’appoggio del la Regione», continua l’imprenditore a verbale. «Galan mi disse che avrei dovuto “mettermi d’accordo” con l’assessore Renato Chisso. Gli chiesi cosa intendesse con quella frase. Mi rispose: “Non fare il furbo, sai bene di cosa parlo, la politica va aiutata”. Ma non era il mio modo di fare l’imprenditore e lo mandai a quel paese».
La difesa di Galan sollecita il confronto con una persona che casualmente aveva assistito al colloquio tra Mevorach e l’ex presidente del Veneto. È una manager, si chiama Erika Bertin, lavora negli Stati Uniti e darebbe ragione a Galan. La procura la fa rientrare in Italia e il risultato è catastrofico per Giancarlo: la Bertin lo sconfessa totalmente.
Arriva un altro imprenditore ad aggravare il conto. È Pierluigi Alessandri, ex presidente della Sacaim, un’azienda veneziana sotto verifica della Guardia di Finanza. La Sacaim era fuori dal giro dei grandi lavori pubblici regionali. Per rimontare la corrente, tra il 2006 e il 2007 Alessandri versa a Galan 115.000 euro in diverse tranches. Una parte gliela va a portare direttamente nella villa di Cinto Euganeo. Un’altra è Galan che va a prendersela, a casa della figlia di Alessandri, a Monticelli di Monselice, in una busta chiusa che la donna gli consegna senza sapere cosa ci sia dentro. Nonostante i pagamenti, per la Sacaim non cambia niente. Allora Galan mette in contatto Alessandri con Renato Chisso, titolare delle infrastrutture, con il quale «era necessario accreditarsi». Nel febbraio 2010, all’hotel Laguna Palace di Mestre, Alessandri consegna all’assessore 30.000 euro: «Chisso prese il denaro come fosse una cosa dovuta, senza minimamente stupirsi». Ma alla Sacaim arrivano solo le briciole dei grandi appalti.

(dal libro “Veneto anno zero” di Renzo Mazzaro sulle tangenti per Mose e molto molto altro.)

Veneto anno zero

L’assoluzione di Tomelleri non toglie un singolare primato del Veneto: quattro presidenti inquisiti su quattro. Con una crescita esponenziale della capacità di delinquere, visto che il Tribunale del riesame si è permesso di definire Giancarlo Galan «personalità allarmante caratterizzata da una particolare, pregnante e radicata negatività»; autore di «iniziative direttamente rivolte agli imprenditori interessati alla realizzazione di opere nel Veneto, tese a sollecitare in capo a loro dazioni di denaro»; in grado di «approfittare di qualunque occasione, anche di mera convivialità, per avanzare richieste e pretese, sfruttando le cariche istituzionali». Un quadro che per i giudici dimostra «l’assoluto asservimento dell’Ufficio di Presidenza della Regione Veneto agli interessi privatistici del Galan, finalizzato ad alimentare la sua consolidata corruzione». Non è la sentenza del processo che non arriverà mai, perché Galan sceglierà il patteggiamento, ma il Tribunale del riesame è pur sempre parte terza, tra difesa e accusa.

Quest’ultima stima in un miliardo di euro la cresta fatta ai finanziamenti del Mose dal 2003 in poi, per il «fabbisogno sistemico» come l’ha ribattezzato l’ingegner Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani, la più importante azienda del Consorzio Venezia Nuova, arrestato il 28 febbraio 2013. Il sistema era quello costruito da Giovanni Mazzacurati, per trent’anni ai vertici del Consorzio, prima come direttore generale e poi come presidente. «Capo supremo», lo chiamavano i suoi collaboratori. «Grande burattinaio», lo definisce il pm Paola Tonini nella richiesta di misura cautelare eseguita il 12 luglio 2013, con la seconda ondata di arresti. Baita e Mazzacurati erano il gatto e la volpe del sistema truffaldino architettato attorno al Mose, salvo trasformarsi da compagni di merende in principali accusatori, quando lo scandalo viene scoperchiato.

Al «fabbisogno sistemico» si assoggettavano tutte le imprese. Il denaro saltava fuori fatturando lavori inesistenti o sovrafatturando quelli veri: una quota veniva retrocessa al Consorzio, che pagava tutti. A partire dal Magistrato alle acque, che doveva funzionare da controllore diretto dei lavori e invece era al soldo del controllato. E continuando con la giunta regionale, che a pagamento spianava la strada ad ogni snodo delle procedure. E poi più su.

dal sito del libro “Veneto anno zero”.