“Le azioni devono essere interamente liberate”… che mi rappresenta ?

L’acquisto delle proprie azioni è subordinato ad una triplice condizione: che esso sia autorizzato dall’essemblea (si vuole evitare che gli amministratori possano speculare a profitto proprio o di terzi , sulle oscillazioni del valore dei titoli); che le somme impiegate non superino l’ammontare degli utili distribuibili e delle riserve disponibili dall’ultimo bilancio regolarmente approvato (altrimenti l’acquisto si tramuterebbe in un rimborso del capitale agli azionisti); che si tratti di azioni interamente liberate. In nessun caso il valore nominale delle azioni acquistate può eccedere la decima parte del capitale sociale (art. 2357 c.c.).

Ehm..si ma azioni liberate ? da quel che ho capito dal testo qui sotto vuol dire che chi ha comprato le azioni ha versato interamente una somma pari al loro prezzo.

Il socio che sottoscrive il capitale sociale si accolla l’impegno di liberare le azioni sottoscritte. In caso di ritardo nell’adempimento, gli amministratori devono seguire una precisa procedura per il recupero dei versamenti residui. Esame del procedimento e degli effetti della morosità del socio.

Con la sottoscrizione del capitale sociale il socio assume un obbligo incondizionato di liberare le azioni sottoscritte. Ferma restando la necessità che una determinata percentuale venga liberata contestualmente alla sottoscrizione, la determinazione del tempo dell’adempimento – per la parte non ancora liberata – è rimessa alla discrezionalità degli amministratori: trova infatti applicazione il disposto dell’art. 1183 cod. civ., per cui la situazione di mora si configura a seguito della scadenza del termine utile stabilito dagli amministratori nella comunicazione di richiamo dei versamenti residui.
La discrezionalità degli amministratori nel richiamo dei decimi
Non vi è chi dubiti, in dottrina, della discrezionalità della decisione degli amministratori di richiamare i decimi, giungendosi piuttosto ad affermare, perentoriamente, che «la decisione degli amministratori è discrezionale, non deve essere motivata e non può essere impugnata dai soci. Che la richiesta di completare i versamenti possa essere “abusiva” sembra escluso dalla considerazione che essa ripristina lo stato normale delle cose, in cui le azioni dovrebbero essere tutte liberate»(1).
L’obbligo del socio di liberare il capitale sociale
L’impegno di versare i decimi che il socio assume con la sottoscrizione delle azioni è funzionale all’effettività del capitale sociale, il quale è non solo strumento della società per il perseguimento dell’oggetto sociale, ma anche garanzia patrimoniale per i terzi che trattano con la società. Pertanto, siffatto debito, ripercuotendosi direttamente sul capitale sociale, non si risolve nell’ambito, meramente interno, del rapporto tra socio e società, ma assume piuttosto uno speciale rilievo esterno, di cui il legislatore dimostra di tener conto nel dettare, per esempio, proprio la speciale disciplina di cui all’art. 2344 cod. civ.
Immodificabilità del termine di adempimento
Sulla base di tale considerazione, autorevole dottrina si è espressa nel senso della non modificabilità (né in aumento né in diminuzione) del termine per l’adempimento previsto dal comma 1 dell’art. 2344 cod. civ., «riguardando esso interessi non disponibili da parte di coloro che provvedono alla pubblicazione della diffida (gli amministratori) e di coloro che ne sono destinatari (i soci morosi) » e, più in generale, della «non modificabilità del procedimento di cui all’art. 2344 cod. civ., perché la formazione del capitale (cui attiene la norma che si commenta) riguarda interessi (dei creditori, degli altri soci) non disponibili dalle “parti” del procedimento di cui all’art. 2344 cod. civ.»(2).
Nello schema immaginato dal legislatore, dunque, qualsiasi pretesa di un socio di subordinare il versamento dei decimi all’assolvimento di determinati obblighi da parte degli amministratori della società è giuridicamente infondata e il suo inadempimento sarebbe perciò privo di ogni giustificazione.
La necessaria immediatezza del pagamento dei decimi residui richiamati dagli amministratori, e dunque l’impossibilità del suo condizionamento o posposizione temporale alla soddisfazione di qualsivoglia richiesta dei soci agli amministratori, esclude persino l’ammissibilità della previsione statutaria di un termine a favore del socio, prima dello scadere del quale il versamento non possa essergli richiesto(3). Si osserva correttamente al riguardo che, considerata «l’esigenza di garantire l’effettività del capitale», una volta «costituita la società, gli amministratori sono liberi di chiedere in ogni momento ai soci i versamenti ancora dovuti. Né sono tenuti a rispettare eventuali termini stabiliti nell’atto costitutivo»(4) .
Un termine siffatto «non potrebbe essere previsto neppure limitatamente all’esecuzione della prestazione di conferimento, perché sarebbe sostanzialmente equivalente ad uno sconto sul prezzo di emissione, che è vietato»(5).
Inderogabilità della procedura di recupero dei versamenti dovuti
Quale logico corollario, la procedura per il recupero dei versamenti ancora dovuti – essendo normativamente scandita in una serie di atti la cui sequenza è imposta dalla legge agli amministratori – deve essere considerata inderogabile.
Ciò può forse apparire strano al di fuori del contesto societario, ma nel senso dell’impossibilità per gli amministratori di invertire, una volta innescato, il procedimento della vendita (offerta ai soci) in danno si pronuncia la più autorevole dottrina, secondo cui gli amministratori «non possono modificare il procedimento a tal fine previsto dalla legge e atteggiarlo a loro piacimento»(6).
Di fronte ad un versamento tardivo del socio moroso, per esempio, gli amministratori non avrebbero l’obbligo di tornare indietro, azzerando la procedura esperita; essi sono di contro tenuti a procedere all’offerta agli altri soci delle azioni non liberate.
Azione di responsabilità nei confronti degli amministratori inerti
Si è parlato al riguardo di una vera e propria «aspettativa degli altri azionisti all’esercizio del diritto di opzione» sì che l’inerzia degli amministratori nel procedere all’offerta – che attribuisce in sostanza a questi ultimi un diritto di opzione sulle azioni del socio moroso – potrebbe essere posta alla base di un’azione di responsabilità nei loro confronti(7).
Per di più, qualora si considerasse che gli amministratori sono tenuti ad accettare un eventuale pagamento tardivo del socio moroso, ne risulterebbe leso non solo l’interesse degli altri soci all’esercizio dell’opzione che la legge riconosce loro, bensì, e soprattutto, vanificata la ratio stessa dell’istituto, poiché si produrrebbe l’effetto di indurre il socio ad attendere fino al momento in cui gli amministratori si accingano concretamente a vendere le sue azioni per effettuare finalmente il pagamento dovuto; mentre la funzione della norma è chiaramente quella di spingerlo ad adempiere tempestivamente, e al più tardi entro il breve termine della diffida pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, rendendolo consapevole che, in mancanza, agli amministratori sono attribuiti efficaci e immediati strumenti per reagire, recuperare i versamenti e finanche escluderlo dalla compagine sociale.
Il procedimento per la mora del socio nel versamento dei decimi richiamati
L’art. 2344 cod. civ. disciplina il procedimento che gli amministratori devono seguire in caso di mancata esecuzione dei pagamenti dovuti da un socio; la procedura è scandita in una serie di atti con una formulazione da cui si deduce il carattere non facoltativo e non procrastinabile delle iniziative che gli amministratori sono tenuti ad intraprendere al fine di assicurare l’integrale liberazione delle azioni, una volta intervenuto il richiamo.
Il procedimento inizia in ogni caso con la pubblicazione di una diffida nella Gazzetta Ufficiale successivamente alla scadenza del termine fissato per il versamento.
Decorsi inutilmente 15 giorni dalla pubblicazione della diffida, l’organo amministrativo ha la possibilità di decidere se mantenere la partecipazione del socio moroso oppure escluderla. Nel primo caso, promuoverà azione nei confronti del socio per l’esecuzione del conferimento, nel secondo, offrirà le azioni, non interamente liberate, agli altri soci(8).
Esame dell’utilità dell’eventuale azione giudiziale
La legge impone di valutare l’“utilità” di un’eventuale azione giudiziale per ottenere il pagamento da parte del socio moroso e, qualora questo esame dia esito negativo, procedere offrendo agli altri soci le azioni non liberate dal socio moroso.
L’esame dell’utilità dell’azione giudiziale consiste in una valutazione di opportunità e convenienza, che evidentemente si risolve in una stima previsionale dei tempi e dell’esito del procedimento, basata sui dati disponibili in merito, per esempio, alle condizioni patrimoniali del soggetto contro il quale si agisce(9).
L’opportunità di procedere per le vie giudiziarie ordinarie deve essere valutata in base alla possibilità di soddisfare in tal modo e in tempi ragionevolmente brevi l’interesse che la norma intende tutelare, ossia quello (non solo della società, ma come abbiamo visto anche dei creditori e dell’ordinamento in generale) all’effettività del capitale sociale e dunque al recupero dei decimi.
Occorre in effetti valutare i diversi rimedi offerti dalla legge in relazione all’esigenza di disporre, in tempi brevi, delle somme oggetto di richiamo, tenendo conto allora non soltanto delle capacità patrimoniali del debitore ma anche dei tempi e del probabile esito del procedimento esecutivo; non si può in effetti non considerare che gli amministratori decidono di procedere al richiamo dei decimi evidentemente per far fronte ad esigenze della società (10).
Il diritto di opzione degli altri soci sulle azioni non liberate
Nel caso in cui gli amministratori ritengano non “utile” in relazione all’interesse sociale esperire azione esecutiva nei confronti del socio moroso, offriranno le azioni non liberate agli altri soci, in proporzione alla loro partecipazione al capitale sociale.
In buona sostanza, la norma attribuisce agli altri soci un diritto di opzione sulle azioni non liberate, rapportato alla quota da ciascuno di essi posseduta.
La ratio della previsione di una distribuzione proporzionale dei conferimenti è evidente: si vuole evitare che con tale distribuzione si modifichi la partecipazione e il peso di ciascun socio nell’organizzazione.
Non è espressamente previsto un connesso diritto di prelazione a favore di quei soci che, avendo esercitato l’opzione limitatamente alla quota loro offerta, intendessero acquisire anche quelle azioni che, offerte agli altri soci, fossero rimaste inoptate.
Appare in ogni caso ragionevole applicare per analogia la norma dell’art. 2441 comma 3, cod. civ., che attribuisce il diritto di prelazione sulle azioni di nuova emissione e le obbligazioni convertibili in azioni.
Le conseguenze in caso di residuo di azioni invendute
Nel caso in cui, dopo l’offerta ai soci, residuino azioni invendute, gli amministratori devono valutare nuovamente la situazione al fine di individuare la migliore soluzione per la società. In particolare, essi potranno procedere alla vendita coattiva sul mercato, a rischio e per conto del socio, a mezzo di una banca o di un intermediario autorizzato alla negoziazione in mercati regolamentati ovvero, qualora lo ritengano utile, proporre avverso il socio moroso l’azione di adempimento che, in ipotesi, non fosse stata esperita in precedenza.
Se la vendita non potesse aver luogo per mancanza di compratori, gli amministratori potranno dichiarare decaduto il socio, riducendo il capitale sociale e trattenendo le somme riscosse a titolo di risarcimento del danno.
Il corrispettivo in caso di vendita delle azioni non liberate
Con riferimento alla vendita cui si fa luogo laddove le azioni offerte ai soci restino inoptate, il legislatore ha conservato la formula secondo cui la procedura avviene «a rischio e per conto del socio, a mezzo di una banca o di un intermediario autorizzato alla negoziazione in mercati regolamentati».
Tale fattispecie viene comunemente ricondotta all’istituto dell’esecuzione coattiva per inadempimento del compratore nella vendita di cose mobili, ex art. 1515 cod. civ., per cui si riconosce il diritto del socio moroso di ottenere quanto eventualmente residui del prezzo riscosso, una volta detratto l’ammontare dei versamenti ancora dovuti e i costi della procedura (più l’eventuale maggior danno subito dalla società).
Nel silenzio della legge, ci si interroga se quanto disposto per la vendita a terzi si applichi anche per l’offerta ai soci, rispetto alla quale la norma si limita a disporre che la vendita debba avvenire «per un corrispettivo non inferiore ai conferimenti ancora dovuti». In particolare, ci si chiede se, a tutela del socio moroso, anche la vendita ai soci debba avvenire al prezzo di mercato.
Ebbene, la ratio? dell’attribuzione del diritto di opzione è quella di offrire la possibilità ai soci di conservare la proporzione della loro partecipazione o di incrementarla con precedenza nell’acquisto rispetto a terzi, mentre la ratio della vendita coatta è quella di tutelare l’integrità del capitale sociale: non pare allora che le due finalità si escludano a vicenda e non sarebbe di contro giustificabile una compressione delle ragioni economiche del socio moroso a favore dei soci che acquistano le sue azioni.
È in ogni caso opportuno che gli amministratori tengano conto, nella determinazione del prezzo, dell’interesse della società a soddisfarsi sul ricavato della vendita non soltanto in relazione al credito per i decimi non versati, ma anche alle spese sostenute con la procedura e al danno eventualmente subito.
Alla luce di siffatte considerazioni, si ritiene che gli amministratori, quando le circostanze (situazione patrimoniale, riserve, stato economico ecc.) giustificherebbero la vendita delle azioni per un prezzo superiore al valore dei decimi dovuti, devono in un primo momento porre in vendita le azioni per tale prezzo e solo dopo, qualora la vendita non riesca, diminuire il prezzo sino a scendere fino a quello minimo pari al valore dei decimi dovuti. Il mancato rispetto di queste modalità giocherà sul piano della responsabilità degli amministratori, specie nei confronti del socio moroso.
A questi, infatti, deve essere versato il di più incassato dalla vendita delle azioni rispetto al predetto prezzo minimo, salvo il danno eventualmente subito dalla società.
Non vi sarebbe ragione di operare diversamente, sia perché la società, se non deve subire pregiudizio, neppure deve avvantaggiarsi dalla morosità del socio, sia perché il “richiamo” rischierebbe allora di tramutarsi in uno strumento (magari consapevole) per porre in difficoltà il socio medesimo(11).
Il riferimento normativo al valore dei «conferimenti ancora dovuti» deve in ogni caso essere inteso in senso relativo e non assoluto: se dunque gli amministratori non hanno richiamato tutti i decimi di capitale, il corrispettivo dovrà essere parametrato esclusivamente al valore dei decimi richiamati, non già al valore di tutti i decimi residui: i soci che acquistano le azioni, infatti, assumeranno altresì l’obbligo di integrale liberazione delle azioni per la parte di decimi non ancora richiamata.
Diversamente opinando si arriverebbe alla “assurda” situazione di veder coesistere azioni interamente liberate, quelle del socio moroso vendute agli altri soci, e azioni non interamente liberate, quelle dei soci che hanno regolarmente versato i decimi richiamati da l consiglio di amministrazione.
I casi di immodificabilità della compagine sociale
La procedura di cui all’art. 2344 cod. civ. determina, in linea di principio, l’estromissione del socio moroso dalla società: sia nel caso di vendita coattiva delle azioni non liberate, sia nel caso di offerta delle medesime azioni agli altri soci, si verifica, infatti, una modifica soggettiva della partecipazione al capitale sociale.
Nel nostro ordinamento sussistono tuttavia delle ipotesi in cui, per espressa previsione legislativa, generalmente di tipo pubblicistico, non è possibile la modifica dei partecipanti al capitale di società che operano in particolari settori: si pensi, per esempio, alle società di progetto costituite ex art. 37- bis e segg. della legge 11 febbraio 1994, n. 109.
Si pone allora il problema dell’applicazione a tali ipotesi delle disposizioni sulla mora del socio. Non essendo in astratto percorribili le soluzioni estreme di mancata applicazione dell’art. 2344 cod. civ. alle fattispecie di cui trattasi, ovvero applicazione? sic et simpliciter di tale disposizione con effetti eventualmente modificativi della compagine sociale, appare necessaria una lettura correttiva al fine di far coesistere le due discipline.
La soluzione preferibile parrebbe consistere nel riferire la procedura in commento a tutte le azioni del socio moroso tranne una, al precipuo fine di conservarne la partecipazione al capitale sociale.
Per quanto specificamente attiene al profilo della compatibilità con la disposizione privatistica dell’art. 2344 cod. civ., è pacificamente ammesso in dottrina che la vendita in danno possa riguardare anche soltanto parte delle azioni del socio moroso, sì da conservare a quest’ultimo la sua qualità di socio(12).
Tale ipotesi appare coerente anche con la disciplina pubblicista.
Sempre con riferimento al caso della società di progetto, il disposto dell’art. 37- quinquies , comma 1- ter , della legge n. 109/1994 secondo cui «il contratto di concessione stabilisce le modalità per la eventuale cessione delle quote della società di progetto, fermo restando che i soci che hanno concorso a formare i requisiti per la qualificazione sono tenuti a partecipare (alla società di progetto) ed a garantire, nei limiti di cui sopra, il buon adempimento degli obblighi del concessionario sino alla data di emissione del certificato di collaudo dell’opera», chiarisce che la normativa intende assicurare che tutti i partecipanti all’Ati aggiudicataria garantiscano l’adempimento degli obblighi assunti, senza che ciò impedisca però la circolazione delle quote e quindi la modifica delle percentuali di partecipazione alla società di progetto.
Nello stesso senso depone l’ art. 96 del D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, richiedendo semplicemente che tutte le imprese riunite facciano parte della società di progetto(13).
Occorre ad ogni modo sottolineare che il medesimo risultato potrebbe essere raggiunto anche attraverso una diversa imputazione dei versamenti che i soci devono effettuare contestualmente alla sottoscrizione delle azioni in sede di costituzione della società. La parziale liberazione delle azioni che deve avvenire in sede di costituzione della società pone in effetti il problema della imputazione del versamento fatto dal socio moroso. In particolare, occorre verificare se detto versamento debba essere imputato pro quota a tutte le azioni sottoscritte, ognuna delle quali sarebbe dunque solo parzialmente liberata, ovvero se il versamento possa essere imputato solo ad alcune azioni, che dunque sarebbero liberate per intero, mentre altre non sarebbero state liberate neppure in parte.
La soluzione non appare irrilevante, posto che l’offerta ai soci e la vendita sul mercato possono riguardare solo azioni non interamente liberate dal socio moroso, che rimarrebbe titolare delle eventuali azioni interamente liberate.
Considerazioni conclusive
Generalmente si ritiene che ai versamenti dei decimi possano applicarsi le norme generali sull’imputazione dei pagamenti, per cui, in caso di mancata diversa indicazione da parte del socio-debitore al momento del versamento, l’imputazione dovrebbe essere proporzionale per tutte le azioni.
Si verificherebbe allora una parziale sottoscrizione di tutte le azioni da parte del socio moroso che, dunque, non rimarrebbe titolare di alcuna azione all’esito della procedura di vendita di cui trattasi.
Ad ogni modo, da un’attenta lettura della disposizione relativa alla liberazione parziale delle azioni in sede di costituzione si può osservare che il legislatore non ha previsto alcun obbligo di imputazione della parte di capitale immediatamente liberato dai soci, limitandosi a fare riferimento al valore dei conferimenti che i soci hanno assunto l’obbligo di eseguire.
Infatti, l’art. 2342 comma 2, cod. civ., si limita a prevedere che «alla sottoscrizione dell’atto costitutivo deve essere versato presso una banca almeno il venticinque per cento dei conferimenti in danaro».
Proprio sulla base di tale diversa considerazione, una risalente giurisprudenza ha affermato che, in presenza di versamenti insufficienti a liberare le azioni sottoscritte da un determinato socio, la società avrebbe il dovere di imputare i pagamenti alla integrale liberazione del maggior numero possibile di azioni, lasciando in tutto o in parte scoperte le altre (14).
Detta giurisprudenza è stata oggetto di condivisibili critiche nel senso della impossibilità di incidere ex post sulla liberazione delle azioni ovvero della facoltà e non obbligo per la società di scegliere le modalità di imputazione delle somme ricevute (15).
Ad ogni modo, la richiamata sentenza fornisce una chiave di lettura importante nel senso del favor verso il socio moroso rispetto alla liberazione, iniziale o successiva, del capitale sociale, che gli interpreti non dovrebbero trascurare.
La soluzione proposta rileva, peraltro, con riferimento alla diversa problematica del diritto di voto del socio moroso che, in luogo di essere interdetto rispetto a tutte le azioni parzialmente sottoscritte, potrebbe essere “salvato” relativamente ad un determinato numero di azioni (16).
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(1) Campobasso, Diritto commerciale, II, Diritto delle società, Torino, 2003, pag. 186 e segg. In tal senso cfr. anche: Spolidoro, «I conferimenti in danaro», in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, Torino, 2004, I, pag. 395; Frè-Sbisà, «Società per azioni», commento sub art. 2342, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, (a cura di) Galgano, 151, Bologna-Roma, 1997; Cass., Sez. I, 10 dicembre 1992, n. 13095, in Fallimento, 1993, pag. 595, con nota di Lamanna.
(2) Pisani Massamormile, «I conferimenti nelle s.p.a., artt. 2342-2345», in I l Codice civile-Commentario, diretto da Schlesinger, Milano, 1994, pag. 312.
(3) Campobasso, op. cit., pag. 186; Spolidoro, op. cit., pag. 391.
(4) Campobasso, op. cit., pag. 186.
(5) Spolidoro, op. cit., pag. 391.
(6) Ferri, «Le Società», in Trattato Vassalli, Torino, 1985, pag. 428. In tal senso cfr. anche Cassottana, «Commento sub art. 2344», in Società di capitali, (a cura di) Niccolini-Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, pag. 243, secondo cui «la fase iniziale di recupero dei versamenti ancora dovuti è scandita da una serie di atti (diffida ad adempiere, azione per l’esecuzione del conferimento o, laddove se ne ravvisi la non utilità, offerta di opzione agli altri soci) intesi ad evitare ingiustificati comportamenti dilatori, con evidenti riflessi sulla posizione degli amministratori: viene così sottolineato il carattere non facoltativo e non procrastinabile delle iniziative rivolte ad assicurare l’integrale liberazione dei conferimenti in danaro, una volta intervenuto il richiamo da parte degli amministratori».
(7) Cassottana, op. cit., pag. 243.
(8) In ossequio al principio di parità di trattamento nonché al dovere di diligenza nella cura dell’interesse sociale ex art. 2392 cod. civ., gli amministratori devono agire nei confronti di tutti i soci inadempienti al richiamo dei decimi. Ciò, tuttavia, non significa che essi debbano necessariamente utilizzare nei confronti di ciascun socio lo stesso strumento: al contrario dovranno scegliere per ciascun caso quello più opportuno. Quella che non potrà essere in nessun caso giustificata è invece l’inerzia: «mentre nelle fattispecie concrete potrebbe essere giustificata la scelta degli amministratori di perseguire diversamente il socio moroso, non lo potrebbe mai essere la aprioristica rinunzia ad ogni azione, ivi compresa quella ex art. 2344 cod. civ. Se non altro perché, in presenza di un definitivo inadempimento del conferimento, occorre comunque ridurre in proporzione il capitale» (Pisani Massamormile, op. cit., pag. 311).
(9) In tal senso cfr. Bertolotti, «Commento sub art. 2344», in Il nuovo diritto societario, Bologna, 2004, I, pag. 205.
(10) In tal senso cfr. Cassottana, op. cit., pag. 242.
(11) Pisani Massamormile, op. cit., pag. 311.
(12) In tal senso, Spolidoro, op. cit., pag. 450; Pisani Massamormile, op. cit., pag. 311. Così anche App. Firenze 14 gennaio 1964, in B anca, borsa tit., cred., 1964, II, pag. 581.
(13) Come si osserva in dottrina, Baldi, «La concessione di lavori pubblici», in Il project financing nei lavori pubblici, di Baldi e De Marzo, Milano, 2001, 380, «non sembra che possano ricavarsi preclusioni alle modificazioni dell’assetto societario, dalla necessità, per i partecipanti alla gara di cui all’art. 37 quater in qualità di concorrenti costituiti in forma plurisoggettiva, di indicare le quote di partecipazione alla società di ciascun soggetto, parte del raggruppamento». E ciò appare tanto più vero, ove si consideri che «la possibilità di circolazione delle partecipazioni societarie rappresenta un principio generale dell’ordinamento, quale espressione della libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.), che potrebbe essere limitato solo sulla base di previsioni espresse».
(14) App. Firenze, cit.
(15) Perrino, Le tecniche di esclusione del socio dalla società, Milano, 1997, pag. 171.
(16) In tal senso Pisani Massamormile, op. cit., pag. 311.

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