Caro popolo birmano non calerà il silenzio

dal “Mattino” di oggi

Caro popolo birmano, alcuni mesi fa ti camminavo a fianco da turista. Oggi ti guardo attraverso la televisione e provo orrore. Ti sono passata accanto e mi sono portata a casa il tuo sorriso.
Ti ho visto caricarti sulle spalle pesi incredibili al porto sul fiume Ayeyarwady per guadagnarti la giornata; la tua schiena e le tue gambe piegarsi ed eri solo un ragazzino. Ho sentito il tuo canto lontano uscire dai campi coltivati, ma non ti vedevo. Ho ascoltato le tue preghiere profonde; ho assistito ai riti della tua religione che predica la non violenza nella magica Shwedagon Paya di Rangon. Ho incrociato il tuo sorriso sul lago Inle quando tu vestito a festa per il capodanno buddista, ti recavi in barca alla pagoda. Ci siamo salutati festosi agitando le mani come ci conoscessimo: eravamo amici.
Ti ho dato in mano una fotocopia dell’Europa e dell’Asia in cui avevo evidenziati l’Italia e il tuo Paese perché tu potessi   almeno   lontanamente
immaginare da dove venivo io, così diversa da te, ma anche chi eri tu. E tu mi hai guardato sorpreso, curioso e forse grato.
Ho incontrato le tue donne e i tuoi bambini che fuori dai luoghi sacri mi vendevano corolle di fiori dal profumo che stordiva. Sapevo che dovevo comperare perché il loro orgoglio e la loro dignità avrebbero impedito qualsiasi forma di elemosina. Allora cercavo di dare più del dovuto perché significava cibo; ma non troppo per non offenderli. Ho ignorato i bei negozi convenzionati con lo Stato, ma ho comprato le bellissime cose che tu facevi con le tue mani accovacciato all’angolo della strada. Mi sono innamorata dell’eleganza delle tue donne: i capelli raccolti sulla nuca, la gonna stretta e lunga, il corpetto sfiancato a giro collo con la mezza manica, su corpicini minuti e sinuosi, tutti grazia e delicatezza. Nessuna volgarità, nessuna provocazione.
Ho visto in ogni angolo i tuoi monaci con la loro ciotola per l’elemosina, essere accolti festosamente nelle case anche più povere, sedere e ricevere il cibo. Li ho visti recitare nei templi le loro preghiere dal suono profondo, staccati da tutto. Ogni volta ho “dimenticato” sul comodino della camera d’albergo il libro portato dall’Italia nella cui copertina c’era la foto del Nobel Suu Kyi; i camerieri avrebbero capito che sapevamo. Ho sofferto con te quando la guida mi ha indicato dal pullman la zona in cui c’erano i detenuti costretti ai lavori forzati e legati con catene, alcuni delinquenti, la maggioranza oppositori politici.
Infine ti ho dovuto lasciare per rientrare a casa e avevo con me il tuo sorriso, la tua grazia, la tua dignità e soprattutto il tuo profondo rispetto
per la sobrietà. Ma non mi ero accorta che sotto alla tua apparente mansuetudine tu in realtà stavi preparando un’azione di straordinario coraggio e forza; inerme, non violenta contro una violenza spietata. Perché sei ferito, bastonato, offeso, deprivato, umiliato, esausto; perché esigi democrazia e libertà. Quando il primo monaco è sceso sulla strada, sapeva di dover essere pronto a sopportare tutto. Ma una cosa non tollererai: che su di te cali il silenzio.

Diana Curzi

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