Per Cimoli un compenso annuo di 2.786 milioni di euro

-Vendere la società a un big straniero. O lasciarla fallire. Sono le uniche strade. Così si schierano gli esperti. Mentre il dossier plana sul tavolo del governo-

(da "L'Espresso e dal sito http://www.md80.it/article.php/2006060607283043)

Doveva essere l'anno della rimonta. E invece sarà per un'altra volta. Perché per l'Alitalia i dati del primo trimestre 2006 sono quelli di un'autentica débâcle. Mentre il business internazionale del traffico passeggeri cresce (più 5,9 per cento, secondo la Iata), e tutti i principali vettori continuano a guadagnare, la compagnia italiana precipita.
E non solo in Borsa. I ricavi netti consolidati lasciano sul campo oltre il 3 per cento. La perdita operativa sale a da 118 a 129 milioni. E il risultato prima delle imposte peggiora di 15 milioni, a quota 157.

Asserragliato nel quartier generale romano della Magliana, il presidente e amministratore delegato Giancarlo Cimoli è sull'orlo di una crisi di nervi.
Nei giorni scorsi ha dovuto incassare un formidabile uno-due: lo stop ai voli per la Sardegna (a causa di un ritardo nella presentazione dell'offerta) e il congelamento dell'acquisizione di Volare, deciso dal Consiglio di Stato.
Quindi è arrivata la tegola del disastroso bilancio trimestrale. Lui ha provato a difendersi dando tutta la colpa al rincaro del carburante.
È stato poco convincente: la Lufthansa guadagna e i suoi aerei non vanno mica a pedali.
Così, i sindacati, che già avevano giudicato poco credibili i conti del 2005 (sui quali aveva storto il naso anche il revisore Deloitte & Touche), hanno ricominciato a chiedere la sua testa.
Anche perché hanno scoperto che, a fronte dei sacrifici chiesti ai dipendenti, Cimoli non è stato lì a lesinare sul proprio stipendio.
Le cifre parlano chiaro. Nel 2004 il compenso risultava pari, su base annua, a 2.269 milioni di euro. Dal progetto di bilancio 2006 reso noto il 16 marzo è saltato fuori che per quest'anno la cifra è salita a 2.786 milioni, con un incremento di quasi il 23 per cento.
A titolo di raffronto, il capo dell' Air France, Jean-Cyril Spinetta, nel 2004 era fermo a quota 710 mila. Con la differenza che la sua azienda fa soldi. L'Alitalia li brucia.

Il dossier è sul tavolo del governo. Così, mentre il ciarliero neo-ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, ha aperto le consultazioni, è ripartito l'annoso dibattito sul che fare dell'Alitalia: abbandonarla a se stessa e aspettare che porti i libri in tribunale o continuare a finanziare i suoi deficit.
'L'espresso' ha girato la domanda a cinque osservatori eccellenti. Ecco cosa ne pensano.

Giorgio Fossa, già presidente della Confindustria, ex numero uno della Sea (la società degli aeroporti milanesi) e della compagnia Volare, oggi advisor nel settore del trasporto aereo: "La Klm è stata comprata dall'Air France.
I passeggeri non se ne sono neanche accorti, perché sulla coda degli aerei c'è ancora la corona olandese.
L'unica differenza, per loro, è che il servizio è migliorato.
Per l'Alitalia si dovrebbe seguire la stessa strada: cederla a un grande vettore internazionale interessato ad acquisire un marchio ancora importante e un ricco bacino di traffico.
L'alternativa è che faccia gruppo con le altre compagnie italiane. Perché una cosa è certa: da sola non ce la può fare.
I concorrenti riescono a guadagnare quando riempiono un aereo al 65 per cento; l'Alitalia perde anche quando vende l'80 per cento dei posti. Vuol dire che ha tariffe sballate e costi troppo alti.
Per un motivo semplice: con gli aerei vecchi la manutenzione diventa dispendiosa e i consumi esagerati".

Savino Pezzotta, ex segretario generale della Cisl: "Un paese come l'Italia, che deve riuscire a vendere la sua immagine all'estero, non può fare a meno del biglietto da visita rappresentato da una grande compagnia aerea di bandiera.
Occorre dunque procedere sulla strada del risanamento e del rinnovo della flotta, puntando su un'alleanza internazionale e ricordando che non esiste solo l'Air France.
Cimoli ha fatto bene sul piano finanziario. Ma senza una riorganizzazione industriale non si va da nessuna parte. Quanto ai sindacati, avranno pure le loro colpe, perché hanno capito la situazione con ritardo.
Ma il clientelismo è figlio della politica. E, se nessuno può dirsi innocente, è chiaro che quando un'azienda non funziona la responsabilità è di chi la gestisce e non certo di chi ci lavora".

Marco Ponti, docente di economia dei trasporti al Politecnico di Milano, ex consulente della Banca mondiale: "Per l'Alitalia c'è una sola ricetta: bisogna lasciarla fallire, trasferendo i soli servizi redditizi in un'altra società da piazzare sul mercato.
Il resto va chiuso. Dando una mano a chi perde il posto: ma senza esagerare, perché finora i dipendenti hanno guadagnato molto senza lavorare altrettanto.
A beneficiare del fallimento sarebbero tutti gli altri italiani, perché l'arrivo in massa di tante Ryanair farebbe crollare le tariffe. Sarebbe l'avvento di un'alta velocità a costo zero.
Il problema di Alitalia è quello di una gestione tutta politica, al cui interno la compagnia dispensava favori ai partiti in cambio della garanzia di non fallire. Il risultato è che per far contenti tutti si ritrova una flotta Arlecchino, che comporta enormi costi di gestione, e paga il carburante molto più dei concorrenti.
È ora di finirla. Del resto, la società ormai è stata privatizzata, anche se fittiziamente, come dimostra il fatto che non si sono visti né sentiti azionisti in cerca di ragguagli sui conti. Quanto a Cimoli, è un bravissimo risanatore, con il denaro pubblico però. Il suo piano non era credibile. Serviva solo a superare le elezioni".

Nicola Rossi, economista e deputato Ds, già consigliere economico di palazzo Chigi: "Con Alitalia gli italiani il conto lo pagano due volte.
Quando comprano i suoi biglietti, che sono troppo cari. E quando vengono chiamati a ripianarne il deficit, a colpi di tasse.
Se questo è il prezzo per avere una compagnia di bandiera, allora lasciamo perdere.
Il fatto è che manca una strategia: Alitalia continua a sperare di cavarsela mantenendo rendite di posizione sul circuito domestico.
Ed evitando di affrontare la concorrenza. Un disegno miope. Il vero nodo, comunque, è quello delle alleanze".

Chicco Testa, presidente di Roma Metropolitane e consigliere di Rothschild Italia, già advisor del ministero dell'Economia per Alitalia: "Sono contrario all'accanimento terapeutico e non credo che avere una compagnia di bandiera sia d'obbligo. L'obiettivo deve essere quello di un'alleanza internazionale che salvaguardi alcuni aspetti: penso alle rotte non redditizie, ma che vanno comun
que assicurate.
Troppo spesso Alitalia è stata tirata per la giacchetta dalla politica, che le ha affidato una doppia missione: far volare gli italiani ed essere un punto di riferimento per i problemi dell'occupazione e dell'industria fornitrice.
Ora bisognerebbe fare chiarezza sul suo ruolo.
E procedere a quella cura da cavallo che pochi manager hanno osato prefigurare, vedendosi sempre e sbattere la porta in faccia. Ma in realtà temo che ormai dobbiamo rassegnarci ad assistere a una lunga agonia.
(Stefano Livadiotti-L'Espresso)

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