Le esportazioni e la capacità di competere europee sono danneggiate da un tasso di cambio troppo forte? L’euro è davvero sopravvalutato?
Non è facile rispondere. Usando un po’ di teoria economica elementare, ci si può chiarire le idee, anche se la risposta che daremo solleva altri interrogativi.
Procediamo con ordine.
Il tasso di cambio reale (REX) è un indicatore della competitività internazionale di un paese. REX fa ciò misurando il prezzo relativo delle merci provenienti da paesi diversi e calcolati in una stessa valuta. Prendiamo gli scambi tra due aree, l’Europa e gli Stati Uniti. In questo caso, il tasso di cambio reale è dato dal rapporto tra il prezzo in euro delle merci europee (PUE€) e il prezzo in dollari di quelle americane (PUSA$) moltiplicato per il tasso di cambio nominale dollaro/euro (EX$/€). Ossia:
REX = (PUE€ /PUSA$) x EX$/€
La competitività dipende quindi da due fattori: il prezzo reale (relativo) e il tasso di cambio nominale. Quando il tasso di cambio reale aumenta, la competitività delle merci europee si riduce e viceversa.
Supponiamo che il tasso di cambio nominale sia di 1.5 dollari/euro (superiore alla quotazione corrente) e che un paio di jeans costi 40 € in Europa e 50 $ negli Usa. In questo caso il tasso di cambio reale è pari a 1.2. Infatti, il prezzo relativo dei jeans europei rispetto ai jeans americani è di 1.2 sia se lo esprimiamo in dollari (60$/50$), sia che lo esprimiamo in euro (40€/33€). Supponiamo ora che l’euro si deprezzi rispetto al dollaro (che si rafforza), e che il tasso di cambio nominale scenda, per esempio, a 1.2 $/€ (grossomodo la quotazione corrente). In tal caso i jeans europei diverrebbero più competitivi – il tasso di cambio reale sarebbe pari a 0,96 (48$/50$ = 40€/41.7). Ovviamente, i jeans europei diverrebbero più competitivi, a parità di cambio nominale, se il prezzo reale si abbassasse. In ogni caso, quando il tasso di cambio reale è maggiore di 1, si dice che una moneta è sopravvalutata e viceversa che è sottovalutata quando REX < 1.
Di questi tempi, molti esportatori europei, ed italiani in specie, si lamentano del fatto che l’euro è troppo alto rispetto al dollaro e che ciò danneggia le esportazioni dell’Europa nel resto del mondo. Per capire se queste lagnanze sono fondate dovremmo sapere di quanto è sopravalutato, se lo è, l’euro. Poi, sappiamo che la competitività dipende, oltre che dal tasso di cambio nominale, anche dal prezzo reale, che a sua volta dipende dal costo unitario di produzione relativo tra le due aree. Allora bisogna capire i) se l’euro è effettivamente sopravvalutato rispetto al dollaro e di quanto; ii) se i costi unitari di produzione registrano differenze significative.
Gli economisti hanno elaborato una teoria, la teoria della parità del potere d’acquisto (PPP, Purchasing Power Parity), la quale riflette l’idea che il prezzo di una valuta (il tasso di cambio nominale) ne dovrebbe rispecchiare il potere d’acquisto. La PPP indica il valore che il tasso di cambio nominale dovrebbe assumere per mantenere invariato nel tempo il tasso di cambio reale, ovvero il tasso di cambio nominale che renderebbe pari ad 1 il tasso di cambio reale, perequando il prezzo (espresso in un’unica valuta) di una merce nelle due aree.
L’esperienza, soprattutto la storia degli ultimi 30 anni, mostra che i tassi di cambio si sono spesso allontanati da questo standard. Tuttavia come tendenza di lungo periodo la teoria fornisce una guida affidabile; in altre parole, anche se nel lungo periodo ogni valuta finisce per riflettere il suo potere d’acquisto, possono essere necessari da 3 a 5 anni prima che un tasso di cambio (nominale) sbilanciato converga verso il livello d’equilibrio sancito dalla PPP (e non è detto che la convergenza sia completa).
In ogni caso possiamo usare il tasso di cambio reale e la PPP per fare delle inferenze sull’allineamento dei tassi di cambio e per capire quanto una valuta si discosti dal suo potere d’acquisto, risultando o sopravvalutata o sottovalutata, e quindi quali possano essere le tendenze sottostanti.
Dal 1984 l’Economist calcola la PPP per un gran numero di tassi di cambio usando l’hamburger Big Mac come merce di riferimento. Le ultime statistiche compilate dal settimanale inglese indicano che in effetti l’euro è sopravvalutato. Un Big Mac costa in media 2.92 € nella zona dell’euro e 3.06$ negli Stati Uniti. Poiché attualmente il tasso di cambio nominale $/€ è pari a circa 1.22 (ossia occorrono 1.22 dollari per acquistare 1 euro), il tasso di cambio reale calcolato per il Big Mac è maggiore di uno e pari a 1.16. Nei paesi che adottano l’euro, un Big Mac costerebbe 3.56 dollari: l’euro sembra effettivamente sopravvalutato di circa il 16%. Con questi valori il tasso di cambio nominale che renderebbe eguale il prezzo del Big Mac nelle due regioni sarebbe poco maggiore di uno (pari a 1.05$). Gli indicatori calcolati dall’Economist per tutte le altre numerose valute, mostrano un notevole dis-allineamento dei tassi di cambi nominali. Ai tassi correnti, la polpetta MacDonalds “costa” solo 1.27$ in Cina – la cui valuta è la più sottovalutata del mondo (-59%, ma anche lo yen è sottovalutato del 23%) – e la bellezza di 7.40$ in Kuwait, il paese con il cambio più sopravvalutato (+142%). In Europa, la sterlina risulta un po’ meno sopravvalutata dell’euro rispetto al dollaro (+12%), ma assai di più lo sono i cambi del franco svizzero (+65%), della corona danese (+50%) e di quella svedese (+36%).
Per la verità, la PPP ci direbbe esattamente di quanto una moneta è sopra(sotto)-valutata se le merci scambiate fossero prodotte usando esclusivamente input che possono essere facilmente scambiati sui mercati internazionali e se non ci fossero barriere commerciali, costi di trasporto e differenze nei regimi fiscali. Ma non è così. Anche se il peso di questi ultimi fattori si è notevolmente ridotto con la globalizzazione, lo stesso prezzo di un prodotto semplice come il Big Mac riflette le differenze nel costo di due fondamentali input che non sono (facilmente) scambiati internazionalmente: il lavoro e il locale (lo spazio occupato dal ristorante). Mentre i prezzi degli “ingredienti” del Big Mac scambiati internazionalmente (come la cipolla ad esempio) convergono rapidamente verso i valori implicati dalle parità del potere d’acquisto, lo stesso non avviene per il costo del lavoro (salari) e le altre componenti non-traded, che pesano per circa il 65% nella formazione del prezzo di un Big Mac. Per quanto riguarda il costo del lavoro, a contare non è solo il salario nominale ma anche la produttività del lavoro (il costo del lavoro unitario: tasso del salario meno tasso di variazione della produttività).
A questo riguardo l’Economist fa dell’ironia – l’abituale ironia all’inglese che in questo caso deve indurre alla riflessione: «Gli Italiani amano il caffè forte e il cambio debole…Ma hanno ragione di lamentarsi…[che] l’euro è sopravvalutato?...Visto in questa luce, il nostro indice dà poco conforto alle critiche italiane sulla moneta unica. Se l’euro compra meno polpetta di quanto dovrebbe, forse è da biasimare la rigidità dei salari piuttosto che la forza della moneta».