La risposta delle cellule T nella diagnosi della malattia di Lyme

In questi giorni è stato pubblicato dalla prestigiosa rivista Clinical Infectious Diseases uno studio su un test di stimolazione delle cellule T nella diagnosi della Lyme precoce (Early Lyme) ((Callister, SM et al. 2016)). Sebbene numerosi studi su metodologie analoghe siano stati prodotti fin dalla scoperta dell’agente eziologico della malattia di Lyme, questa pubblicazione sembra il segno di una apertura verso il definitivo riconoscimento di tale metodica diagnostica. Infatti la testata in parola è la pubblicazione ufficiale della Infectious Diseases Society of America (IDSA), organo scientifico che impone il paradigma medico negli USA e fuori, nell’ambito delle malattie infettive.

La metodologia impiegata in questo studio si basa sul prelievo dei linfociti T dal sangue periferico del paziente e successiva esposizione degli stessi ad antigeni di Borrelia burgdorferi. Il passaggio seguente consiste nella misura (con tecnologia QuantiFERON) della sintesi di interferone gamma (INF-gamma): se le cellule T esposte agli antigeni sintetizzano più INF-gamma rispetto a quelle non esposte (controllo), allora si deduce che i linfociti T stiano ‘ricordando’ un recente incontro con la spirocheta B. burgdorferi. Quindi un test positivo si interpreta come infezione attiva.

Una metodica del tutto simile (detta QuantiFERON-TB Gold test, QFT-G) è stata ampiamente investigata nella infezione da Mycobacter tubercolosis (agente eziologico della Tubercolosi) ((Connell, TG et al. 2006)), e da tempo è indicata dalle linee guida IDSA-CDC come test di riferimento ((Controlling Tuberculosis in the United States, 2005)).

L’INF-gamma è un messaggero chimico sintetizzato da una specifica sottopopolazione dei linfociti T, le cellule T helper (Th), caratterizzate dalla espressione dell’antigene CD4, e per questo dette anche cellule T CD4+ ((In realtà anche le cellule natural killer (NK) sintetizzano INF-gamma, ma poiché la risposta delle NK è aspecifica, non è di interesse nell’ambito di test infetivologici.)). Le funzioni dell’INF-gamma sono molteplici: stimola le cellule B al passaggio di classe da IgM a IgG ((Sompayrac, Lauren M. 2012. How the Immune System Works. Fourth Edition. s.l. : Wiley-Blackwell, 2012.)), inoltre stimola la presentazione di antigeni sia da parte dei macrofagi ((Sompayrac, Lauren M. 2012. How the Immune System Works. Fourth Edition. s.l. : Wiley-Blackwell, 2012.)) che da parte di cellule non immunitarie (fibroblasti, cell. endoteliali etc) ((Collins, et al., 1984)). In definitva l’INF-gamma è una parte importante della risposta delle cellule Th a un insulto infettivo.

Tornando allo studio di Callister e colleghi, i ricercatori hanno impiegato questa metodica nella Lyme precoce (pazienti identificati dall’erythema migrans, lesione cutanea patognomonica della malattia di Lyme) riportando una sensibilità del 69% nel campione esaminato ((Callister, SM et al. 2016)). Questa sensibilità può apparire deludente, invece è un dato di grande interesse poiché nella Lyme precoce i test sierologici (ELISA+Western blot) hanno una performance non buona, intercettando solo dal 29 al 40% dei pazienti ((Auguero-Rosenfeld, ME et al. 2005)). La sensibilità di questo test è anche superiore a quella della PCR su sangue nella medesima popolazione (intorno al 20%) ((Institute of Medicine, Diagnostics and diagnosis, 2011)) ed è paragonabile solo alla sensibilità della PCR su biopsia da eritema migrante ((Auguero-Rosenfeld, ME et al. 2005)). Considerando che l’eritema migrante si manifesta solo in un 50% dei casi di infezione ((Trevisan, G et al. 1990)), si comprende l’importanza che potrebbe avere questo nuova procedura nella diagnosi precoce. Nell’abstract dell’articolo (aspetto il testo completo) non si parla di specificità della metodica, ma vale la pena ricordare che sia la PCR che la serologia a due passi (ELISA+WB) presentano una specificità che approssima la certezza ((Auguero-Rosenfeld, ME et al. 2005)). Si evidenzia invece la capacità del test di identificare una risposta positiva al trattamento antibiotico, confermando precedenti osservazioni ((Chen, J et al. 1999)) e la nozione che l’attività delle cellule Th circolanti sia di brevissima durata ((Kaech, et al., 2007)).

Lo studio -come detto- riguarda la Lyme precoce e nulla dice riguardo le forme avanzate della malattia e la Post Treatment Lyme Disease, stadi della patologia in cui esiste un bisogno disperato di un esame che possa escludere o identificare una infezione attiva (vedi in proposito questo post). Si tenga presente infatti che la sierologia presenta una sensibilità di meno del 90% in alcune forme disseminate, come la forma neurologica ((Bacon, RM et al. 2003)), mentre alla PCR si attribuisce complessivamente una bassa sensibilità ((Bonin, S. 2016)). Inoltre una sierologia positiva può persistere per mesi o anni dopo la remissione del soggetto ((Craft, JE et al. 1984)) e quindi non fornisce alcuna indicazione sulla attività della infezione.

Anche per aggirare queste difficoltà, molti autori si sono interessati nel tempo allo studio della risposta delle cellule T durante e dopo l’infezione da Borrelia burdorferi, vedi ad esempio ((Dressler, F et al. 1991)), ((Chen, J et al. 1999)) e ((Valentine-Thon, E et al. 2007)). I test che misurano la reazione dei linfociti T dopo esposizione ad antigeni, possono complessivamente essere definiti lymphocyte transformation test (LTT) e sono classificabili in due grandi categorie:

  1. test di proliferazione linfocitaria (come l’LTT MELISA), in cui l’attività delle cellule T si ricava dalla misura della proliferazione delle stesse, dopo stimolazione;
  2. test di stimolazione linfocitaria in cui l’attività dei linfociti T viene stabilita in base alla quantità di citochine specifiche (INF-gamma e IL-2) sintetizzate dalle stesse, dopo stimolazione (appartengono a questa categoria il QuantiFERON e l’ELISPOT).

Entrambe le categorie presentano poi varianti, in base ai tempi di coltura dei linfociti e ai set di antigeni utilizzati, fra le altre cose. La prima categoria di test richiede un tempo di esecuzione più lungo della seconda e costituisce l’approccio meno recente.

I test LTT sono stati comunemente utilizzati nello studio delle malattie autoimmuni ((Salvetti, M et al. 1992)) e permisero ad esempio di investigare la natura autoimmune dell’artrite di Lyme resistente ai trattamenti ((Gross, 1998)). Di fatto gli LTT (sia del tipo 1 che del tipo 2) sono i principali mezzi investigativi, quando si tratta di studiare la presenza di cellule T autoreattive. Gli LTT sono stati esaminati anche come possibile strumento diagnostico nelle malattie infettive, come ad esempio nel caso dell’ELISPOT nell’EBV ((Calarota, S et al. 2013)), l’ELISPOT nella febbre Q ((Schoffelen, T et al. 2014)), l’ELISPOT  ((Nordberg, M et al. 2012)), il QuntiFERON ((Callister, SM et al. 2016)) e l’LTT MELISA ((Baehr, 2012)) nella borreliosi di Lyme.

Nella malattia di Lyme l’impiego del metodo LTT a fini diagnostici ha finora fornito risultati contraddittori, tanto che né le linee guida europee per la neuroborreliosi ((Mygland, 2010)) né i CDC americani (vedi qui) ne raccomandano l’uso a fini diagnostici. Recentemente un gruppo di ricercatori europei (tra cui V. Fingerle e I. Steiner, autori delle linee guida europee per la neuroborreliosi) ((Dessau, RB et al. 2014)) così si è espresso in risposta a uno studio ((Baehr, 2012)) sul test di proliferazione linfocitaria nella malattia di Lyme:

E’ possibile che in futuro il metodo LTT  dimostrerà una rilevanza clinica nella diagnosi della malattia di Lyme, ma allo stato attuale manca l’evidenza a favore di una conclusione di questo tipo.

Credo che il problema principale, in questa vicenda, sia che sebbene la metodologia LTT abbia fin da subito dimostrato la potenzialità di individuare infezioni attive da Borrelia burgdorferi, tuttavia -a differenza di quanto accaduto per Mycobacter tubercolosis- nessuno sforzo è stato fin ad ora fatto per standardizzare questo test (che sia l’ELISPOT o il MELISA o il QuantiFERON), e definirne accuratamente sensibilità e specificità. Eppure, lo studio appena pubblicato su Clinical Infectious Diseases apre la strada a questo processo, almeno per quanto concerne il metodo QuantiFERON, variante dell’ELISPOT.

E’ auspicabile e possibile che fra non molto questa metodologia sia disponibile presso gli ospedali italiani, migliorando concretamente la sensibilità dei test diagnostici della Lyme, senza andare a discapito della specificità. E’ comunque interessante osservare che già ora ogni ospedale universitario del nostro paese possiede la tecnologia per effettuare questo genere di test i quali -come detto- sono utilizzati correntemente nei laboratori di ricerca immunologica e infettivologica.

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