Un’analisi che condivido

dal sito http://www.repubblica.it/2006/04/sezioni/politica/elezioni-2006-11/scalfari-italia-spaccata/scalfari-italia-spaccata.html
“Mi dici che loro ti odiano? ma che significa “loro”? Ognuno ti odia in modo diverso e stai pur certo che tra loro c’è chi ti ama. La grammatica con i suoi giochi di prestigio sa trasformare una moltitudine di individui in un’unica entità, in un unico soggetto, che si chiama “noi” o “loro” ma che non esiste in quanto realtà concreta”.
(Milan Kundera, Il Sipario)

La questione di base è la spaccatura dell’Italia in due. Numericamente le due metà coincidono e sono, al fondo delle cose, l’una contro l’altra armate (metaforicamente s’intende, o almeno si spera). Ma sarebbe un gravissimo errore pensare che da una parte (la propria) ci sia il male e dall’altra il bene, due categorie che sono invece tipicamente trasversali perfino all’interno di ciascun individuo e figurarsi all’interno d’una società complessa ed evoluta.
Un lettore ci ha scritto nei giorni scorsi: “Sono abbastanza colto, ho letto più o meno gli stessi libri e ascoltato le stesse musiche dei miei amici di sinistra (ne ho più d’uno), viaggio all’estero per lavoro e per diporto; insomma sono un italiano come milioni di altri, ma non ho mai votato e mai voterò per la sinistra. Non mi appartiene e non le appartengo. Non so spiegare perché ma questo è il mio modo di sentire”.

Ebbene, non è un caso sporadico quello del nostro lettore, anzi è molto diffuso tra le due inconciliabili metà della mela italiana, il che rende assai difficile governare questo nostro Paese. In alcuni periodi della nostra storia la contrapposizione frontale tra le due metà è sembrata attenuarsi se non proprio scomparire, ma è stato sempre un fenomeno di superficie. Bastava che emergesse un qualche tribuno eloquente o meglio ancora tonitruante, un qualche demagogo capace di risvegliare il virus latente e talvolta letargico annidato nel nostro organismo sociale, un qualche visionario furbo quanto basta per volgere a proprio vantaggio il disprezzo italiano contro tutto ciò che puzza di regole; bastava questo perché il virus annidato e dormiente riprendesse il suo vigore e le antiche divisioni il loro sopravvento.


Non a caso fu detto che il nostro è sempre il Paese dei guelfi e dei ghibellini, dei neri e dei bianchi, dei poveri e dei ricchi, dei proletari e dei capitalisti. Per andare alla storia recente, è stato il Paese dei repubblicani e dei monarchici nel ’46, dei democristiani e del fronte popolare nel ’48 con una campagna elettorale da far impallidire quella feroce testé conclusa. Perciò non è una novità la spaccatura del corpo elettorale e la reciproca incomunicabilità. Ne volete un esempio ancora fresco? Prendete Ugo La Malfa. Quando morì, nel 1978, tutti lo piansero e lo rimpiansero ma finché visse furono solo quattro gatti a dargli attenzione e consenso. Aveva una tempra morale di rara solidità, un impegno politico superiore e una visione concreta e lungimirante del bene comune, ma aveva un difetto gravissimo: voleva cavalcare la linea di confine tra le due Italie, dichiarava una duplice contemporanea appartenenza, alla sinistra e al libero mercato capitalistico.

E poiché vedeva le insufficienze di entrambi i campi, voleva riformarli tutti e due non perché dovessero procedere a braccetto ma perché potessero confrontarsi al più alto livello scambiandosi il meglio e scartando il peggio di ciascuno. Difetto imperdonabile voler camminare sul muro di confine irto di cocci di bottiglia, come ha scritto Montale in uno dei suoi “ossi di seppia”. Per La Malfa quel difetto era la sua virtù e non una disponibilità al compromesso, ma la vocazione riformatrice di modernizzare il Paese tenendo strettamente unite insieme la giustizia e la libertà.
Lo seguirono in pochissimi. Solo dopo la sua morte si sono resi conto che era uno dei padri della patria. Ne abbiamo così pochi…

Queste elezioni – sento dire – hanno riproposto l’esistenza d’una questione settentrionale. Infatti la destra, o meglio il berlusconismo, ha riconquistato il Nord. Lì si era manifestato con più evidenza il disincanto: tasse rimaste esose nonostante le promesse, crescita zero (per cinque anni l’incremento del Pil più basso d’Europa), consumi stagnanti, esportazioni in calo, investimenti fermi. La grande industria del nordovest (quel che ne restava) in perdita netta di velocità; i “piccoli” del nordest in crisi dopo vent’anni vincenti; le partite Iva in difficoltà, il ceto medio preso dall’incubo d’impoverimento. Ma ecco il miracolo: negli ultimi tre mesi di campagna elettorale il Cavaliere di Arcore ha risvegliato il virus della paura dei bolscevichi, degli statalisti, della burocrazia oppressiva, delle tasse “à gogo”.

La gente “produttiva” cui si rivolgeva sapeva benissimo che lui la burocrazia l’aveva mantenuta come prima e peggio poiché a quella statale aveva aggiunto quella regionale (che sarà triplicata se il prossimo referendum non cancellerà la riforma denominata “devolution”); sapeva che aveva dilapidato il bilancio e che la spesa era aumentata di 2 punti e mezzo di Pil, pari a 45 miliardi di euro senza darci nessuna opera pubblica in più, nessuna sicurezza in più, nessun miglioramento nei servizi della scuola, della sanità, della giustizia. La gente “produttiva” del Nord sapeva che la pressione fiscale in cinque anni era diminuita soltanto dello 0,7 per cento, poco più dello 0,1 l’anno, cioè nulla.

Ma si è spaventata. Turandosi il naso è tornata a votarlo. Poteva forse votare per i comunisti? Poteva rischiare di mettersi in mano dei tassatori di professione? Non poteva. Non ha varcato la linea di confine. Non si è fidata. Non è rimasta nemmeno a casa. Un milione di indecisi ha deciso di rivotarlo l’ultima settimana, dopo l’annuncio che avrebbe abolito l’Ici. Sapete chi aveva preparato un progetto di legge tre anni fa sull’abolizione dell’Ici? Rifondazione comunista. Non lo sapevate? Incredibile non è vero? Eppure è così. Perfino Visco, sì, proprio Visco, quello che se potesse tassare l’aria che si respira sarebbe al colmo dell’allegria (così lo descrivono a destra), si proponeva di abolire l’Ici.

Naturalmente, in un’economia stagnante se si abbuona un’imposta bisogna trovare altrove le risorse per sostituirla. Oppure si manda in deficit il bilancio e si fanno debiti. Questo la gente “produttiva” lo sa e sa anche che è un gioco che non può andare avanti all’infinito. Infatti per l’Italia non funziona più. Però gli hanno creduto e l’hanno rivotato. Adesso forse si stanno accorgendo che, pur di restare al potere, preferirebbe vedere le piazze in rivolta. Non credo che lo seguirebbero. Va bene abolire l’Ici, ma la guerra civile, quella no. Ma è vero che esiste una questione settentrionale. Non l’ha inventata Berlusconi, ma c’è, c’è da tempo. Fu Bossi a scoprirne l’esistenza una ventina d’anni fa. Purtroppo ne dette una versione estremista e folcloristica, non capì qual era la natura di quella questione. La natura consiste nella perdita di competitività. Nella scarsa innovazione. Nella bassa produttività.

La Confindustria conosceva questa situazione. Ci fece, proprio su questo tema, il convegno di Parma, quello famoso del 2001, nel quale il candidato Berlusconi fu acclamato quando disse: “Il vostro programma è il mio programma” e giù a spellarsi le mani con il presidente D’Amato a dirigere l’entusiasmo generale mentre il candidato Rutelli fu accolto nel silenzio punteggiato di fischi. Che cosa voleva la Confindustria di D’Amato? Riacquistare competitività per l’economia, far crescere le dimensioni delle piccole imprese, uscire dal perimetro familiare. Portarle alla Borsa o almeno nei circuiti superiori del credito bancario. “E’ il mio programma” disse il candidato Berlusconi, che ha governato cinque anni con una maggioranza parlamentare di cento deputati e col 30 per cento di voti concentrati sul suo partito.

Cinque anni dopo le dimensioni medie delle imprese non sono aumentate ma addirittura diminuite, siamo a un dipendente e mezzo per azienda. Gli investimenti in ricerca scientifica in termini di Pil sono diminuiti al più basso livello europeo, la competitività del sistema Italia è scesa da quota 27 a quota 43; il passante di Mestre è ancora nel regno dei sogni sebbene la provvista dei fondi necessari fosse stata già assegnata ai tempi del governo D’Alema. Nel frattempo i “furboni del quartierone” hanno prosperato, la finanza ha sostituito l’impresa e il capitale speculativo esentasse ha generato altrettanto capitale speculativo con multipli di dieci se non di cento. Nello spazio di settimane si sono accumulate fortune.

Ma non si tratta di quella decina di ormai ultranoti con altrettante frequentazioni politiche e finanziarie che vanno da Dell’Utri a Grillo; sono molti ma molti di più ad essersi pluri-arricchiti nella nobile arte del denaro che crea denaro esentasse. Però è bastato che Prodi dichiarasse di volerli tassare per far decidere gli indecisi a muoversi. Eppure tutto ciò gli era ben chiaro, è materia loro, è loro esperienza d’ogni giorno, ci si arrovellano su quegli arricchimenti speculativi senza fatica né sudore della fronte. Ciò malgrado l’hanno votato. Al concorrente hanno detto: no, tu no. Ma perché? Perché no.

Io una risposta ce l’ho. L’ho già scritta una settimana fa quando stavamo andando a votare e non si sapeva ancora come sarebbe finita. La mia risposta è questa: metà dell’Italia e forse anche più non si fida dello Stato. Quella è la vera questione di questo paese: non è la questione settentrionale e neppure quella meridionale, ma è la questione dello Stato. Gli italiani non se ne fidano. Invece gli inglesi sì, i francesi sì, gli scandinavi sì, i tedeschi sì e anche gli olandesi, anche i belgi, anche gli austriaci. Del loro Stato si fidano. “My country”. In Gran Bretagna, che è il paese più liberale del mondo, i cittadini si chiamano sudditi tanto è il rispetto che hanno del loro Stato.

Di quale nazionalità sei? Ti rispondono: Sono suddito inglese. Con orgoglio. Nello stesso modo, con lo steso orgoglio, un francese ti risponde che è cittadino francese. Da noi non si usa, perché siamo stati per secoli colonia. Vice-reame. Principato tributario dell’Impero. Oppure del re di Francia. Oppure del re di Spagna. Oppure pedina e base della flotta inglese. Oppure il Papa, ma quella è un’altra faccenda ancora più complicata. Lo Stato è il protagonista negativo della nostra storia nazionale. Lui ti vuole fregare e tu lo devi fregare. Cercherai di ottenerne qualche favore, piccolo o grande che sia, ma non ti impegnerai mai con lui, ti impegnerai con chi cercherà di farti avere quel favore e tu apparterrai a lui. Farai parte della sua clientela. Innalzerai la sua bandiera. Non per scelta politica ma per fedeltà alla persona. Eventualmente mascherata da ideologia.

In un’intervista di pochi giorni fa il presidente del Censis, De Rita, ha detto che in Italia non si può fare un programma valido per l’intera nazione ma bisogna modularlo sul territorio. In buona parte De Rita ha ragione. L’ispirazione, la tonalità di un programma deve avere valenza nazionale, ma le diagnostiche e la terapia debbono essere modulate per territorio. Penso che questo farà Prodi. La sua coalizione politica è fragile ma la sua alleanza sociale potrà essere fortissima se sarà capace di incontrare e parlare con le forze sociali rappresentative del territorio. Nessuno può farlo meglio di lui.

Sul territorio il manicheismo attecchisce molto meno. Il famoso confine tra le due Italie sbiadisce. Il sindaco di Bologna è di sinistra, eccome se lo è, ma quel confine l’ha fatto scavallare con i fatti e i comportamenti. Ciampi ha dato l’esempio. Unità, Costituzione e l’Inno di Mameli. Sembravano fisime del vecchio nonno del Quirinale, invece contenevano qualche cosa di più d’un messaggio; contenevano una propedeutica, la vocazione al dialogo nel rispetto fermo delle convinzioni proprie ma anche di quelle altrui. Forse, mentre il Presidente degli italiani, ha irrevocabilmente deciso di non accettare una riconferma che tutti sarebbero lieti di dargli, è venuto il momento di mettere in pratica i suoi insegnamenti: ci sono regole e norme che vanno rispettate, ci sono doveri che vanno adempiuti e diritti che vanno riconosciuti, ci sono prepotenze che non possono essere tollerate. La democrazia non è la corte dei miracoli ma un esercizio paziente in cui non esiste il figlio del professionista diverso da quello dell’operaio, ma tutti debbono avere eguali opportunità di costruirsi una vita e un destino.

(16 aprile 2006)

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