Generazione 1000 euro

da “L’Espresso” di questa settimana http://www.espressonline.it/eol/free/jsp/detail.jsp?type=cs

Precari? Non solo. Molti hanno il posto fisso. Nel terziario o nello Stato. Spesso sono laureati. Ma con poche possibilità di migliorare

di Paola Pilati

Guadagnano meno dei loro padri alla loro età, e hanno una prospettiva di carriera molto più grigia. Sono i giovani che si muovono oggi sul mercato del lavoro: stagisti, lavoratori a progetto, segretarie interinali, ricercatori e docenti universitari, single o mammoni. Scuole finite regolarmente, magari anche una laurea, addirittura una specializzazione. Sono passati attraverso una serie più o meno lunga di lavoretti precari. Fino all’assunzione: molto spesso con uno dei tanti contratti flessibili a disposizione dei datori di lavoro per far entrare in fabbrica o in ufficio, ma non solo. Anche chi ha il mitico posto fisso, è accomunato dalla stessa condizione: per tutti il 27, la busta paga, racconta lo stesso tenore di vita. Sotto i mille euro al mese, spesso meno, tra gli 800 e i 900.

Su di loro è nato da poco un sito, www.generazione1000euro.com, dove si può scaricare il libro on line che li descrive. “È la storia di Claudio, un giovane emiliano che vive a Milano come junior account nel marketing di una multinazionale con contratto co.co.pro. a 1.028 euro netti al mese senza tredicesima. Eppure è fortunato, non disdegna la sua vita, ha un lavoro che gli piace e ha ancora i sogni intatti”, spiega l’autore, Antonio Incorvaia.

Ma quanti di questa generazione ‘low cost’ condivide una visione così positiva? I ‘milleuristi’ protestano ma non scioperano perché non c’è sindacato che si occupi di loro: “Diamo ai collaboratori a progetto un contratto di lavoro nazionale”, invoca infatti Agostino Megale, direttore dell’Ires-Cgil. I milleuristi hanno un basso potere d’acquisto, e mobilità sociale pari a zero. “Non ci sono correnti ascensionali”, fotografa il direttore del Censis Giuseppe Roma: “Se dieci anni fa guadagnavi due milioni non ti lamentavi troppo. Oggi a farti sentire mal pagato si aggiunge la mancanza di prospettiva di carriera”. “Sono ‘working poors”, li descrive l’economista Tito Boeri. I giovani milleuristi sono, insomma, i candidati ideali a far parte di quella classe ‘proletarizzata’, descritta in un libro appena uscito, ‘La fine del ceto medio’, di Massimo Gaggi e Edoardo Narduzzi: “Dagli operai ai pensionati senza redditi integrativi fino agli insegnanti e ai dipendenti pubblici con famiglia a carico al minimo dello stipendio, che consumerà beni di prima necessità, sostituirà il trasporto pubblico all’auto e vivrà di servizi sociali essenziali, sempre più schiacciata verso modelli sociali da Terzo mondo”.

Da chi è composta esattamente questa ‘generazione mille euro’? Quello che appariva come un fenomeno socioeconomico marginale, ora sta acquistando un contorno. I milleuristi vengono contati. Messi sotto il microscopio, come ha appena fatto il demografo Antonio Golini, per vedere, per esempio, quanto sono soddisfatti. Si delinea il loro perimetro. Si riflette su cosa sarà di loro al momento della pensione, come ha chiarito la Fondazione De Benedetti in un recente convegno. Ci si interroga sulle loro tutele, come ha fatto la Cgil in un fresco studio dell’Ires. E poiché questo è un gruppo di origine interclassista – e ciò impedisce che diventi la nostra banlieue – può comunque esprimere disagio sociale, disillusione professionale, disaffezione alla politica. Anche per questo sindacato, politica, mondo dell’impresa, cominciano a riconoscerlo come un ‘blocco’ con cui avere a che fare.

‘L’espresso’ ha cercato, per la prima volta, di disegnarne l’identikit sul territorio nazionale, e non solo attraverso un campione: in Italia ci sono in totale due milioni di lavoratori dipendenti tra i 15 e i 40 anni che guadagnano meno di 900 euro al mese, a cui si aggiunge un altro mezzo milione di lavoratori autonomi (vedi tabelle qui sopra). Una cifra consistente, a cui si arriva elaborando i dati dell’ultima Indagine sui redditi delle famiglie della Banca d’Italia (presentata lo scorso gennaio), e che illumina già una prima disparità, quella tra dipendenti e autonomi: i milleuristi sono in netta maggioranza sotto padrone. “Con un potere monopolistico del datore di lavoro, e uno molto basso di trattativa”, commenta Tito Boeri.

Poiché la fascia di età è molto ampia, può venire il sospetto che siano tutti giovani al primo impiego. Ma non è così. Se si suddividono per condizione familiare, la realtà è più bruciante. Dei due milioni e 60 mila lavoratori dipendenti che al 27 prendono meno di 900 euro al mese, 945 mila sono capifamiglia, un milione e 115 mila vivono ancora in famiglia. La metà quindi si deve barcamenare con un proprio bilancio (e verosimilmente è oltre i 30 anni), l’altra metà sta ancora da papà e mammà. Per il mezzo milione di autonomi, la proporzione è un po’ diversa: 319 mila sono capifamiglia, 207 mila sono ancora nella famiglia d’origine.

Quanto alla loro distribuzione nel paese, i dati indicano che i nostri ‘milleuristi’ o giù di lì si annidano sia Nord sia a Sud: tra i dipendenti, il 44 per cento sta nel Settentrione, il 18 al Centro, il 38 nel Mezzogiorno. Tra gli autonomi, prevale il Sud con il 40 per cento, mentre al Nord la presenza scende al 35, e al 25 al Centro. Per sapere qualcosa di più di loro, ci aiutano altri punti di osservazione. “Tra chi ha meno di mille euro al mese ci sono molti laureati”, dice Megale: “Anzi: chi ha la licenza elementare o media inferiore ha mediamente una retribuzione più elevata”. “Il fatto è che quei mille euro li fai lavorando nel terziario di livello basso, dove sono cresciuti di più i posti di lavoro: nei servizi organizzativi, nelle agenzie immobiliari”, aggiunge Roma. Ma dove la laurea non serve. Lo conferma una indagine Unioncamere-Ministero del lavoro: apparentemente dal 2003 al 2005 la domanda di laureati da parte delle imprese aumenta in percentuale dal 6,5 all’8,8. Ma in valori assoluti si dimezza: dai 16 mila del 2003 si precipita agli ottomila del 2005. I posti per i laureati non solo sono pochi, “ma spesso i giovani si ritrovano sul mercato del lavoro con un pezzo di carta poco spendibile”, aggiunge il direttore del Censis, che confessa: “Noi prendiamo solo neolaureati, ma non è facile trovarne qualcuno da assumere a tempo indeterminato”.

La conferma viene da Alessandro Brignone, presidente dell’Ailt, che raggruppa 19 fra le 90 agenzie per il lavoro attive in Italia: “Spesso abbiamo giovani con titolo di studio elevato, ma che non incontrano le richieste del mercato. Che vuole personale per mansioni altamente specializzate come elettricisti, fresatori, tornitori, contabili… Come si risolve? Per quanto ci riguarda, le agenzie investono soldi in formazione, per tentare di colmare il gap tra domanda e offerta di lavoro: 90 milioni di euro nel 2005, per 200 mila persone, con un tasso di occupazione del 50 per cento”. E comunque è sempre lavoro in affitto: solo uno su tre inviato in missione ‘temporanea’ in una azienda, poi ci rimane con il posto fisso. Quanto alla variegata famiglia dei cococo, la ‘segregazione’ è ancora più alta: secondo i dati Inps, il passaggio da questa categoria a quella di lavoratore dipendente a tutti gli effetti è di uno su dieci all’anno.

Ma come si spiega che a un certo punto nel paese c’è stato un blocco degli stipendi di ingresso nel mondo del lavoro? E che questi stipendi si sono di fatto pietrificati a un livello così basso? Il fenomeno non è sfuggito a un osservatore di prima linea della realtà italiana come Giancarlo Morcando, direttore centrale del servizio studi della Banca d’Italia. Nel suo ultimo libro, ‘Una politica economica per la crescita’, lo descrive così: “La crescita dei salari è stata contenuta dalla diffusione dei rapporti a tempo determinato e dal ricambio generazionale della manodopera, seguito alla pesante distruzione dei posti di lavoro nella recessione del 1992-93; a fronte di un cospicuo e costante flusso in entrata di occupati di qualità crescente, il differenziale retributivo tra anziani e giovani si è costantemente ampliato”. “I salari dei giovani sono stati abbassati per contenere la dinamica salariale”, spiega Morcaldo, “e perché non si potevano toccare quelli dei vecchi”. Anche in Banca d’Italia, tanto per dire, è successo così per i nuovi assunti, i cui livelli di stipendio, una volta mitici e comunque sempre ottimi, si sono però abbassati. Risultato: la quota dei lavoratori dipendenti a bassa retribuzione in Italia è passata dal 10 per cento del 1991 al 18 nel 2002. In gran parte proprio i giovani.

E quel che è peggio, tra di loro cresce la percezione di essere maltrattati dal mondo del lavoro. Lo dimostra l’indagine svolta dal Dipartimento di scienze demografiche dell’Università di Roma La Sapienza diretto da Antonio Golini insieme con l’Isfol. Sarà presentata il 15 febbraio, ma qualche risultato si può anticipare. Dei 2.500 giovani tra i 20 e i 34 anni intervistati lo scorso settembre, il 57 per cento dichiara di avere un’attività retribuita, e in maggioranza da lavoro dipendente (il 58 per cento). Quanto alla retribuzione, quattro su dieci di loro guadagnano meno di 750 euro netti al mese. Altri quattro percepiscono tra i 750 e i 1.250 euro netti al mese; gli altri due stanno sopra. Ma la maggioranza si sente sottopagata, e vive quindi la frustrazione di uno stipendio che non riconosce il valore della formazione ricevuta. Il 38 per cento degli intervistati vorrebbe guadagnare tra i 1.250 e i 2.000 euro, mentre ad arrivare a questa cifra a fine mese è solo il 16 per cento. Quanto poi alla voglia di crescere, i giovani si sentono condannati a rinviare le grandi scelte della vita, la casa, la famiglia, perché toccano con mano che con lo stipendio che prendono proprio non ce la fanno: solo due intervistati su dieci ritengono che una busta-paga sotto i 1.250 euro basti per vivere autonomamente. Anche sfondare la soglia dei mille euro, non sembra soddisfacente.

Se si sta sotto, e come abbiamo visto riguarda la maggioranza, guardare all’orizzonte della pensione può essere un incubo. Boeri, con la Fondazione De Benedetti, ha calcolato che un lavoratore a progetto che guadagna oggi 800 euro al mese, dopo 40 anni di contributi (oggi al 20 per cento) avrà una pensione annuale inferiore a 5.000 euro all’anno. “Bisogna aumentare i contributi e introdurre in Italia un salario minimo”, propone Boeri (vedi box qui sopra). Quale? “Per esempio, cinque euro all’ora, 826 euro al mese, il salario medio del Canada”. Siamo sempre ai nostri milleuristi. Dei quali anche il ministero del Welfare comincia a preoccuparsi. Perché molti di loro sono figli dei contratti flessibili introdotti dagli anni Novanta, e che oggi si sono moltiplicati fino a configurare quaranta diverse figure professionali. Una giungla. “È vero che la flessibilità ha fatto crescere l’occupazione”, ammette Morcaldo, ma ha anche creato delle distorsioni: ha trasformato l’occupazione buona in precaria. Un po’ di precarietà va anche bene, ma se l’economia non cresce è condannata a restare tale. E la stabilità dell’assetto sociale non si garantisce se non c’è più occupazione, ma anche crescita dei salari reali”.

“Dobbiamo fare in modo che la flessibilità non sia uno svantaggio”, riflette Lea Battistoni, direttore generale del mercato del lavoro al Ministero del Welfare: “E che la mobilità sia ascendente”. Il che vuol dire formazione e assistenza nell’intervallo tra un lavoro e un altro. Il progetto ‘lavoro e sviluppo’, avviato per le prime 1.300 persone, dà 530 euro al mese a ciascuno, casa, trasporti, un tutor. Funzionerà? Magra consolazione, è che la fascia dei giovani con stessi problemi è diffusa in tutta Europa, e tutti cercano ricette. Aspettando, forse, che la demografia faccia il suo corso: tra il Duemila e il 2020 la popolazione italiana tra i 20 e i 40 anni diminuisce al ritmo di 300 mila unità all’anno: forse, con meno persone che cercano lavoro, il problema dei milleuristi si estinguerà da solo.

Casa, vacanze, tempo libero: vivere low cost

di Chiara Longo Bifano

I più fortunati attingono a tesori di famiglia: vivono dai genitori o in case di proprietà e ricorrono al portafogli di mamma e papà per coprire le emergenze, dalle visite mediche al meccanico. In questo modo con mille euro riescono persino a mettere in cantiere un figlio, che cresceranno i nonni. Ma molte volte con soli mille euro al mese su cui contare, e la prospettiva di non muoversi da lì per anni, la precarietà da economica diventa sociale, e la mancanza di sicurezza blocca la progettualità. Ecco qualche storia.

Giovanni, 38 anni “Sono assistente di volo stagionale all’Alitalia. Cioè precario da 6 anni e con contratti ballerini che variano dai quattro agli otto mesi l’anno. Quando va bene riesco ad arrivare a 12 mila euro annui. Mia moglie lavora in uno studio medico e prende 750 euro al mese. La macchina è intestata a lei, perché a me la banca non ha voluto concedere il finanziamento. Il nostro segreto? Una casa di famiglia, divisa a metà con i suoceri che crescono nostra figlia e la bambina dei vicini, più grande di due anni: noi risparmiamo su vestiti e accessori e lei ha trovato due nonni-baby sitter”.

Silvia, 29 anni “Avevo un posto fisso, tredicesima, buoni pasto. Lavoravo come responsabile commerciale in una società di stampa digitale. Il clima era sempre teso, i capi incoraggiavano una competizione scorretta ed esasperata tra i colleghi. Dopo tre anni e mezzo, mi sono licenziata senza rimpianti per partecipare al decollo di una piccola casa editrice. Guadagno meno di mille euro, ma che problema c’è? Questa è la mia strada, voglio costruire qualcosa e mettere in campo le mie qualità, non la mia aggressività. Certo, ho dovuto cambiare un po’ ilmio stile di vita: ora divido una casa da 380 euro al mese con un’amica a Viterbo e imparo a risparmiare: diluisco saponi e shampoo e spengo il riscaldamento quando apro le finestre”.

Raffaele, 32 anni architetto di Napoli e da due anni docente a contratto presso l’Università Federico II. Ha una cattedra di ‘Tecniche di Realtà Virtuale per l’Architettura’. L’anno scorso al suo corso c’erano 174 studenti: “Faccio parte del cosiddetto esercito della ‘partita Iva-partito di testa’, cioè i cosiddetti professionisti che a stento arrivano a fine mese. Lavoro da otto anni, ho collaborazioni che vanno dalla tv ai videogiochi, dai beni culturali ai cartoon. Sommando il lavoro in studio e detraendo tutte le spese si fa presto a calcolare il reddito mensile: mille euro tondi tondi”.

Vittoria, 25 anni “Abito a Milano e faccio un lavoro molto ‘cool’. Sono una programmatrice informatica, ma non essendo laureata non mi pagano molto, solo così trovo lavoro. L’alternativa può essere un call center o fare la segretaria anche se conosco 5 lingue. Ho trovato un mini-appartamento a 500 euro vista circonvallazione di Milano. A costo di enormi sacrifici riesco a pagarmi una macchina (ma mi faccio ogni tanto ‘sponsorizzare’ il meccanico dai miei genitori), ogni tanto torno a Bari con voli low cost, che costano meno del treno. Niente cinema, niente teatro se non quando costa 5 euro, e non più di una volta al mese. Quando non ho soldi per fare la spesa invito tutti a casa mia per cena e ogni ospite porta qualcosa. Gli avanzi mi durano parecchi giorni”.

Alessio, 27 anni “Lavoro come programmatore e tecnico informatico presso una ditta a pochi chilometri da Venezia, sono un lavoratore dipendente a tempo indeterminato dal 2000. Sono contento del mio lavoro ma non arrivo a mille euro al mese, anche se ho la tredicesima a fine anno. Con la mia ragazza (che di euro ne prende 650, lavora part time e la tredicesima se la sogna) abbiamo comprato un appartamento ed entro l’anno andremo a convivere. Ma dovremo pagare un mutuo da 800 euro al mese”.

Marta, 31 anni “Nonostante una laurea in lingue con lode e un buon inglese non riesco a trovare lavori qualificati che arrivino ai mille euro al mese. Ho fatto l’impiegata, la segretaria, l’interprete, l’insegnante d’inglese, la centralinista e, da ultimo, la bidella. Supero decine di colloqui che alla fine propongono sempre periodi di prova con una retribuzione di 5 euro l’ora e 40 ore settimanali. Totale: 800 euro. Da tempo non mi faccio più illusioni. Vorrei solo non dover mentire e dire che non sono laureata quando mi capita di fare colloqui per lavori meno qualificanti”.

Boeri: una legge per i 5 euro all’ora

Per i ‘milleuristi’ serve un intervento di ‘welfare’, o comunque nuove regole di tutela? “Il salario minimo, per esempio 5 euro all’ora, è una soluzione adottata in altri paesi, e servirebbe a proteggere le persone con potere contrattuale basso”, afferma l’economista Tito Boeri. “Per gli altri, vedo due strade. La prima è quella di aumentare il livello di contributi, portandolo a quello degli altri lavoratori, cioè dal 20 al 33 per cento: anche con mille euro al mese di stipendio, un lavoratore dipendente più comunque contare dopo 40 anni su una pensione di 11 mila euro all’anno, cosa che il ‘Cococo’ non si sogna. L’altra strada, è di evitare che il lavoro flessibile si configuri come un mercato del lavoro parallelo, in cui molti restano intrappolati per sempre, con la prospettiva non esaltante di avere piccoli incrementi di busta paga e pensioni da fame”. Quindi? “Creare un canale di ingresso per i lavoratori flessibili con tutele graduali. Mi spiego: il periodo di prova può essere allungato da tre a sei mesi, ma dal settimo mese al terzo anno, se sei licenziato puoi contare su sei mensilità. Alla fine del terzo anno, passi a tempo indeterminato. In questo modo si impedisce che il datore di lavoro usi figure professionali temporanee come continuative”.

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