La strage di Piazza Fontana

Piazza Fontana12 dicembre 2004: 35°anniversario della strage di Piazza Fontana

Il pomeriggio del 12 dicembre del 1969 una bomba esplose alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano causando 16 morti ed 88 feriti. Nelle stesse ore altre due bombe, queste per fortuna inesplose, vennero rinvenute all’Altare della Patria ed al museo del Risorgimento a Roma. Era l’avvio della strategia della tensione, di una lunga serie di attentati terroristici che avrebbero versato tanto sangue e scosso la democrazia italiana per lunghi anni, con il preciso scopo di fermare le lotte democratiche e di progresso, le novità politiche e sociali che emergevano dall’autunno caldo tese ad avviare trasformazioni profonde nella società italiana.
I movimenti studenteschi in Francia, in Germania, negli Stati Uniti, in Italia, in molti paesi europei, contestavano con determinazione il sistema di relazioni sociali esistente, il principio di autorità, il modo di concepire la famiglia, i rapporti tra le persone. Il collante della contestazione giovanile era stata in ampia misura la mobilitazione contro l’intervento americano in Vietnam. Alle elezioni politiche della primavera del 1968 il PCI e lo PSIUP avevano riscosso un ottimo risultato. In Italia le mobilitazioni studentesche, a differenza di quanto avvenne in altri paesi, tendevano a costruire un rapporto, pur non facile, con le lotte del lavoro,
la ripresa delle lotte in fabbrica aveva alle spalle la “riscossa operaia” guidata dalla CGIL nel corso degli anni sessanta, ma fu solo nel biennio tra il 1968 e il 1969 che il movimento crebbe forte ed impetuoso.
Il clima sindacale e politico nelle grandi fabbriche favoriva l’unità fra i lavoratori nonostante la loro diversa provenienza. Una condizione lavorativa pesante, abbastanza omogenea, caratterizzata da bassi salari e da deboli sistemi di protezione sociale, amalgamava in un vincolo di solidarietà i lavoratori lombardi e piemontesi ai veneti giunti a Milano o a Torino nei primi anni cinquanta, ai meridionali che approdati al nord a migliaia nell’ultimo quindicennio, portavano con se l’esperienza delle lotte bracciantili contro la mafia ed il latifondo. Tutti costoro si mescolavano ai lavoratori già sindacalizzati, con gli attivisti che avevano vissuto la Resistenza e gli anni difficili delle divisioni fra i sindacati.
I lavoratori si organizzavano e dunque lottavano con un vigore e con un livello di partecipazione nuovi e fino ad allora sconosciuti. A Valdagno, zona di radicata cultura cattolica, gli operai tessili nel mese di aprile del 1968, durante uno sciopero, arrivarono ad abbattere con corde e mazze di ferro la statua del Conte Marzotto, il fondatore del gruppo.
La ripresa delle lotte alla Pirelli Bicocca nell’estate del 1968 e successivamente nelle grandi fabbriche di Milano, di Genova e di Torino, dopo anni di ricorrenti difficoltà, avevano assunto un grande rilievo sia per la determinazione dei lavoratori che per la qualità delle richieste avanzate. Ebbero effetto di trascinamento su tante altre realtà produttive del paese.
Si sprigionò da quegli avvenimenti una spinta partecipativa, democratica e modernizzatrice che coinvolse tantissimi aspetti della vita economica, sociale, politica, culturale e del costume del nostro paese, che interessò in modo diretto o indiretto i più disparati strati sociali che sconvolse l’Italietta chiusa e bigotta degli anni cinquanta che pur aveva cominciato faticosamente ad aprirsi negli anni sessanta.
Gli operai, insieme con larghe aree di lavoro impiegatizio, si battevano per ottenere salari più europei e per contestare la impostazione unilaterale data dall’impresa alla organizzazione del lavoro (ritmi, carichi, pause, distribuzione degli orari).
Particolarmente innovative furono le rivendicazioni finalizzate a conseguire un ambiente di lavoro più salubre e il rifiuto delle indennità di nocività. Fu un salto di qualità straordinario per la consapevolezza e la dignità dei lavoratori.
Veniva vittoriosamente condotta in porto nel 1969, una vecchia battaglia dei sindacati confederali tesa al superamento delle gabbie salariali, per cancellare quelle norme che permettevano agli imprenditori di pagare in modo differenziato lavoratori aventi la medesima qualifica e professionalità, operanti però in diverse aree geografiche, secondo parametri rilevati localmente sul costo della vita anziché sulla prestazione fornita.
Le confederazioni avviavano unitariamente in quella stagione grandi campagne rivendicative per impegnative riforme sociali riguardanti le pensioni, la casa, il fisco, i trasporti.
La spinta al cambiamento che proveniva dalle fabbriche allentò nei sindacati divisioni e incrostazioni di un passato assai vicino, innescò la volontà di costruire percorsi e procedure unitarie, partecipazione e controllo diretto dei lavoratori sulla azione del sindacato. Pose alla politica italiana ed alla sinistra domande ed esigenze che richiedevano risposte avanzate e nuove. Le trattative per il rinnovo dei contratti nazionali dei metalmeccanici e dei chimici scaduti nel 1969, portate avanti dai dirigenti nazionali, vennero seguite da vere e proprie delegazioni di massa.
Si innescavano processi partecipativi e democratici nuovi con la elezione dei consigli dei delegati, le assemblee in azienda, un protagonismo nuovo delle forze del lavoro che ponevano il loro ruolo e le loro funzione al centro della agenda politica del paese.
Contro tutto ciò si scatenarono le destre, le forze conservatrici e dell’avventura, i settori deviati dei servizi segreti, le pressioni degli alleati che temevano possibili novità nella evoluzione politica del paese. La bomba che esplose il 12 dicembre in Piazza Fontana ebbe un effetto devastante. Si aprì la caccia al colpevole, ovviamente orientata ed orchestrata verso la sinistra, che si concretizzò nella caccia all’anarchico. Costoro furono immediatamente accusati, uno di loro Pietro Valpreda venne incarcerato per 4 anni per essere successivamente completamente prosciolto. Un altro anarchico, il ferroviere Giuseppe Pinelli cadde dal quarto piano della Questura in modo mai appurato ne chiarito definitivamente. Il trauma provocato dall’attentato venne usato per fermare quei grandi movimenti. Vennero stimolati rigurgiti di destra, le costruzioni di “maggioranze silenziose” contro il mondo del lavoro e lo schieramento progressista.
Per i funerali delle vittime della strage CGIL,CISL e UIL milanesi, dopo riflessioni, discussioni e qualche incertezza iniziale, proclamarono lo sciopero generale che caratterizzò quelle esequie, con lo schierarsi delle forze del lavoro a difesa della democrazia e contro l’eversione. Quella scelta segnò i comportamenti che il sindacalismo confederale avrebbe manifestato di fronte ad ogni attacco terroristico di ogni colore.
I sindacati confederali seppero guidare la mobilitazione popolare non solo per esprimere cordoglio, ma per difendere le istituzioni democratiche, per reagire all’eversione, per isolare gli assassini e i loro mandanti.
Quel giorno era cominciata la lunga battaglia contro il terrorismo, il nemico più insidioso che le fragili istituzioni repubblicane potessero avere e si era avviata la costruzione di un solidale rapporto tra le forze del lavoro e le grandi forze popolari che sostenevano i valori della Costituzione e della convivenza civile. Era cominciata una battaglia difficile da vincere, da portare avanti isolando innanzitutto il terrorismo. Ma alla fine, da questo duro cimento, la democrazia italiana sarebbe uscita vittoriosa.
Dei tragici fatti di Piazza Fontana si sarebbe discusso accanitamente per anni. La verità storica sulle responsabilità della destra estrema negli attentati di Milano e di Roma di quel 12 dicembre, sulle connivenze dei servizi deviati e sul diretto coinvolgimento di loro importanti dirigenti, così come sulle coperture intern
azionali che vennero attivate, sarebbe diventata presto evidente e ben compresa dalla stragrande maggioranza degli italiani. La verità giudiziaria non si sarebbe saputa praticamente mai. Dopo oltre tre decenni di indagini effettuate, di sentenze emesse dai tribunali e successivamente annullate, di processi fatti e disfatti, la ricerca della verità, dei colpevoli e dei mandanti è ancora in corso.
Nel trentacinquesimo anniversario della strage non possiamo che unire le nostre voci a quelle dei famigliari delle vittime, ai tanti democratici che si sono battuti con passione nel corso di questi lunghi anni per rivendicare che giustizia fosse fatta, ai magistrati che hanno trovato troppe volte sbarrate tante strade che potevano portare alla verità, chiedendo ancora una volta che i responsabili possano essere perseguiti e condannati, che su quella pagina tragica ed oscura della nostra storia si abbia la capacità, finalmente e definitivamente, di fare luce.

*presidente Fondazione Di Vittorio.

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