Rinnovare i contratti della PA costerebbe 35 miliardi . No, meno di uno.

I numeri, i numeri. Un recente articolo dell’Espresso spiega come i politici italiani, da Berlusconi a Renzi, ci abbiano inondati di numeri. La questione è che i numeri possono dire tutto e niente, vanno interpretati, e si possono scegliere numeri “veri” “giusti” per affermare una cosa ed il suo esatto opposto.
Lo stesso sta accadendo per una questione che va avanti dal 2010, da quando il governo Berlusconi decise, per esigenze di bilancio dello Stato, di bloccare gli stipendi dei dipendenti della pubblica amministrazione. Blocco rinnovato da Monti, il salvatore della patria , e ovviamente dal furbetto Renzi, il “nuovo che avanza”.

Tutti i quotidiani , con qualche lodevole eccezione tipo leggioggi.it , riportano la tesi dell’Avvocatura dello Stato (che non è una parte terza ma una delle due parti oggetto del parere della Consulta) secondo cui rinnovare i contratti della PA dal 2010 al 2015 costerebbe 35 miliardi di Euro. Una cifra enorme. Peccato però che ci sia, diciamo, qualche dato mancante. Uno, che il ricorso alla Consulta si riferisce solo al periodo 2014-2015 e non ai precedenti , due anni su cinque. Due, che il numero dei dipendenti pubblici non è più quello del 2010 ma è passsato da 3,4 a 3,2 milioni di persone, meno degli altri paesi europei , checchè si continui a ripetere. Sull’efficienza invece, ci sarebbe molto da dire, ma l’efficienza dipende da chi dirige e amministra, vale per l’impresa come per la PA. Tre, che l’indice dei prezzi al consumo IPCA, che si usa per valutare l’aumento contrattuale e quindi il costo, è crollato dal 3,2% del 2010 allo 0,6% del 2015. Le stime, quindi vanno riviste di moltissimo, e al ribasso.
A chi giova quindi , diffondere dati non corretti ? Sicuramente a diffondere nell’opinione pubblica l’idea che il rinnovo del contratto dei dipendenti della PA è una cosa che lo Stato non si può permettere. Lo stesso Stato mentre tangenti e furti continuano (solo in Veneto, per il caso Mose – Forza Italia in primis, 1 miliardo di euro di tangenti). Tutto questo è degno di un paese delle banane, dove il meglio che puoi leggere su Facebook è che i cani sono migliori delle persone. Forse, c’è ancora qualche eccezione.

Qualche dato sui dipendenti della PA in Italia.

Scrive nei commenti alla notizia dei 35 miliardi un utente del Sole 24 ore :”Consentitemi di fare un esempio sulla famiglia. La mia: padre, madre e tre figli. Stabilisco, sono il padre, che il cibo sia così ripartito: per me una bella fiorentina (carne) guarnita da patatine arrosto; per mia moglie una fettina di carne con patatine fritte e ai miei tre rampolli una bella fetta di pane e pomodoro ciascuno. Ovviamente se il pane e sufficiente dopo aver preso ciò che ritengo giusto spetti a me e a mia moglie. Qualcuno mi fa notare che una ripartizione del genere non è poi tanto equa: tre rischiano di morire di fame, una ha un buon sostentamento e un altro si strafoca (mi piace il termine). Dall’altra, si afferma che dare più pane ai tre poveri figli, non le bistecche, potrebbe comportare oneri insostenibili per la famiglia. Paradossale. Non si invita il “pater familias”, di questo si tratta, a evitare di mangiare carne tutti i giorni, lo si mette in guardia dall’offrire più pane a chi già ne ha poco…”. Concordo con lui.

 

 

Il partito dei padroni

E’ l’ultimo libro che sto leggendo – a passo di lumaca come sempre. Dal sito http://damilano.blogautore.espresso.repubblica.it/2010/05/31/il-partito-dei-padroni/

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Innovazione e merito. Sono gli stendardi da issare quando si parla di Confindustria: la politica è brutta, sporca e cattiva, l’impresa è buona e premia i talenti. L’editoriale di Dario Di Vico sul “Corriere” di tre giorni fa, per esempio, è plasticamente allineato su questa immagine: «Dietro la proposta della Marcegaglia si intravedono molteplici riflessioni e una felice intuizione. Si qualifica per come tende a far coincidere la difesa delle proprie legittime istanze con le esigenze generali del Paese. Ridisegna in epoca di grandi sconvolgimenti economici i rapporti politica-società». Mentre la politica «appare senza idee, confusa, afona».

Tutto vero, per carità. Deve essere dunque un folle visionario questo Filippo Astone, giornalista del “Mondo”, non un esponente della Fiom Cgil, semmai un liberale epigono di Ernesto Rossi (le citazioni di “I padroni del vapore” concludono ogni capitolo), che a viale dell’Astronomia dedica un volume controcorrente fin dal titolo: “Il Partito dei padroni”. Sottotitolo: “Come Confindustria e la casta economica comandano in Italia” (ed. Longanesi). Analisi impietosa, fin dalla domanda iniziale: «Marco Tronchetti Provera, Emma Marcegaglia, Luca Cordero di Montezemolo sono poi così diversi da Antonio Bassolino, Rosa Russo Iervolino, Mara Carfagna?».

Questione scandalosa per i censori undimensionali della sola casta politica. Per arrivare alla risposta bisogna leggere 350 pagine istruttive. La Confindustria, scrive Astone, è un mostro dai due volti: quello incensato dagli editoriali, hi-tech e moderno, che predica contro le arretratezze del Paese, dei sindacati, dei politici, insomma degli altri. E quello ottocentesco, da «padrone delle ferriere», molto meno conosciuto. La Confindustria che appoggia la richiesta di risarcimento danni da 35 milioni di euro dell’amministratore delegato dell’Umbria Olii nei confronti delle famiglie di cinque operai bruciati vivi. La Confindustria che reclama l’abolizione delle province ma che si struttura su base provinciale con una miriade di presidenti e vice-presidenti, che costa 110 euro l’anno per ogni dipendente di un’impresa associata, che ha un’organizzazione piramidale degna del Politburo cinese, che è guidata dai professionisti del potere confindustriale inamovibili sulle loro poltrone, con criteri di raccomandazione, di familismo e di nepotismo degni delle liste bloccate dei vituperati partiti. Da salvare c’è solo la battaglia per la legalità e contro la mafia iniziata dagli industriali siciliani guidati da Ivan Lo Bello e Antonello Montante, con l’appoggio dei vertici nazionali. Ma nulla di più.
isola-di-pasqua-2Conclusione: «Un panorama pietrificato, come i Moai di tufo basaltico tratto dal cratere Rano Raraku che da secoli popolano immobili l’isola di Pasqua. Confindustria e le elite economiche italiane chiedono ai lavoratori flessibilità, meritocrazia, pretendono dalla politica efficienza. Ma in questa landa di pietre il potere e le remunerazioni dei vertici aziendali sono rigidi, di certo non flessibili e meritocratici». Risposta alla domanda iniziale del giornalista: no, Tronchetti, Marcegaglia e Montezemolo non sono così lontani dai politici che hanno insegnato a disprezzare. Ne ricalcano fedelmente i vizi e le infedeltà.

Utile per capire che la crisi italiana è il declino di tutta una classe dirigente, non c’è un pezzo che possa tirarsene fuori con disinvoltura. Che servirebbe all’Italia un ceto imprenditoriale moderno e liberale, non solo nei convegni. E che predicare l’ideologia dell’interesse generale per difendere in realtà corposi, ferocissimi interessi particolari è la peggiore delle ideologie. La più pericolosa, quando arriva la Crisi e nessuno può ripetere: non è colpa mia.

Sistri, poche idee ma molto confuse

Il 13 agosto 2011, tra la sorpresa generale, la manovra economica estiva del Governo (Dl 138/2011) ha abrogato l’intero impianto normativo Sistri, il nuovo sistema informatico di controllo per la tracciabilità dei rifiuti in procinto di diventare operativo.
Curiosamente, sulla Gu del 5 settembre è stato poi pubblicato l’accordo raggiunto a fine giugno in sede di Conferenza Unificata, proprio in materia di Sistri e tracciabilità dei rifiuti.
Il Senato, chiamato per primo ad esprimersi sul Ddl per la conversione in legge del Dl 138, in data 7 settembre 2011 ha invece votato per il ripristino del Sistri, con slittamento dei termini di operatività al 9 febbraio 2012; il testo del Ddl n. 2887 è ora all’esame della Camera dei Deputati.