dal sito del “Mattino di Padova”
La Tav o come la si voglia chiamare, l’abbiamo rallentata pure noi. Solo due esempi: a) per anni si è discusso se coinvolgere o no Vicenza, senza considerare che un treno che nell’arco di un centinaio di chilometri si fermi a Verona, Vicenza, Padova e Venezia è una vecchia littorina (il Tgv francese va da Parigi a Bruxelles senza una sola fermata); b) un ennesimo ritardo è stato provocato dalla bizzarra teoria di chi, proseguendo a nord di Venezia, sosteneva un tracciato a ridosso delle spiagge, come se un treno del genere dovesse servire ai bagnanti della domenica. Con il binario, evidentemente, abbiamo un cattivo rapporto: qualche anno fa, a Rovigo scoppiò una mezza rivolta perché si voleva cancellare la locale fermata del Frecciarossa per Roma; treno che poi da Bologna alla capitale ferma solo a Firenze. Non che vada meglio con le altre infrastrutture. L’ex governatore Galan ha intonato ripetuti peana al passante di Mestre, indicandolo come la salvezza del Veneto. I numeri segnalano che prima o poi (più prima che poi) si rivelerà a sua volta inadeguato come la vecchia tangenziale, perché comunque la congestione si va allungando sempre più verso il confine orientale: direttrice su cui si addensa a sua volta l’ombra della mancanza dei fondi per completare la terza corsia a nord di Venezia. Il fatto è che la strada come risposta unica sarà anche appagante dal punto di vista elettorale (e per qualcuno anche da quello economico, come dimostrano le vecchie e nuove vicende tangentare); ma rimane miope. E mentre le poche soluzioni alternative procedono a passo di lumaca (si pensi alla metropolitana regionale, ancora da far partire operativamente dopo oltre vent’anni di cantieri…), il Veneto continua a trascurare l’esigenza di mettere mano a una politica complessiva della logistica, nel frattempo sempre più monopolizzata a sud delle Alpi dalla Germania. Che si tratti di asfalto o binari, di porti o aeroporti o interporti, ciascuno fa da sé ignorando qualsiasi cabina di regia collettiva. È un limite pesantissimo della politica, certo; ma anche delle forze produttive. I tentativi anche validi e innovatori falliscono regolarmente: si pensi alla vicenda Nanotech sull’orlo della crisi, con un distretto che a suo tempo era sicuramente un’idea d’avanguardia; peccato che una volta realizzato il contenitore, le imprese lo abbiano lasciato pressoché vuoto. E oggi, anziché ricchezza, produce debiti. Riemerge così l’antico ma sempre attuale fantasma di un Veneto che a parte qualche lodevole eccezione, non sa fare sistema al proprio interno e non sa costruire solide reti di alleanze al proprio esterno. Finendo per incartarsi sempre più nel nocivo copione di un’area specializzata nel produrre protesta, senza mai ottenere risposte davvero risolutive: un handicap rimasto tale quando il governo teneva rigorosamente fuori i politici veneti, come quando assicurava loro abbondanti posti a sedere. L’alta velocità-capacità-anzi-incapacità senza fondi diventa in tal modo lo specchio di un singolare paradosso: la regione che si vantava di essere la locomotiva d’Italia, parcheggiata su un binario morto.
Francesco Jori