Giuliana Sgrena, Fuoco Amico

Un giorno, le truppe americane racconta Majid con un megafono invitano tutta la popolazione del quartiere (quella rimasta tappata in casa) a dirigersi verso un punto di raccolta, dove avrebbero trovato personale della Mezzaluna rossa (la Croce rossa locale) che distribuiva aiuti. Ma solo chi non era rinchiuso a Falluja sapeva che era stato impedito alla Mezzaluna di portare soccorsi. Così in due file separate- da una parte i maschi adulti e dall’altra donne e bambini – la gente si era diretta verso il “miraggio”, superando i cadaveri abbandonati per strada e i cani che si accanivano su di loro.
Ad aspettare i maschi c’erano però, invece degli aiuti, le manette. Erano considerati tutti combattenti, quindi interrogati con le cattive maniere e poi rinchiusi in un campo. Solo dopo qualche giorno, una volta dimostrato che non aveva toccato esplosivi (con la prova del guanto di paraffina), Majid viene liberato. Ma per andare dove? Vagando, solo e disperato, si dirige alla moschea, di solito luogo di rifugio. Non in questo caso: il pavimento era coperto di cadaveri. Gli americani avevano ucciso tutti i giovani riparatisi nel luogo di preghiera, gli aveva raccontato il guardiano, risparmiato solo grazie alla sua veneranda età. Majid nauseato e disperato non sa più dove andare. Era stato il vecchio guardiano della moschea a indicargli, poco lontano, una casa ancora abitata da un vecchio con tre donne e numerosi bambini. Dopo averlo rifocillato, il padrone di casa l’aveva però costretto ad andarsene: “Se ti trovano gli americani, ci uccidono tutti”, gli aveva detto. Così Majid aveva ricominciato a scappare, senza meta, in cerca di una via di fuga, finché non attraversa il fiume, schivando i proiettili degli americani che inseguivano i fuggiaschi, raggiungendo la propria famiglia a Baghdad. Abdallah non vuole dire di più, ma dà l’impressione di raccontare in terza persona una storia che è la sua, che conosce fin troppo bene. Probabilmente è una precauzione, si sente anche lui osservato dal gruppetto di uomini che ci tiene continuamente sotto tiro.
Intanto, si avvicinano a noi alcuni bambini seguiti dalle madri. Le bambine ancora piccolissime sono già velate e le donne giovani sono coperte da veli neri integrali con solo due buchi al posto degli occhi. “Vi coprivate così anche a Falluja?” chiedo. “No, prima no, ma sappiamo che fa piacere allo sheikhHussein,” rispondono.
Falluja, detta la “città delle moschee”, vanta nelle sue madrasa (le scuole coraniche) la formazione dei più prestigiosi religiosi sunniti, come Najaf per gli sciiti. La tradizione religiosa l’ha trasformata in una città molto conservatrice: qui non si sono mai venduti alcolici e non si è mai aperto un cinema o un Internet café, mentre il velo è stato imposto alle donne con una
fatwa (sentenza coranica).

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