Io non riesco comunque ad accettare la mia condizione di “prigioniera” e questo mi permette di essere sempre combattiva e di mantenere con i rapitori un livello di scontro-confronto che non mi fa mai sentire succube. Uno scontro che nasce da differenze culturali, politiche, religiose e di genere, da loro difficilmente accettabili. Anche quando si parte da principi condivisibili la logica porta inevitabilmente a diverse conclusioni. Le differenze sono peraltro drammatizzate dalle condizioni in cui si svolge il confronto, che mi permettono di conoscere più da vicino un mondo altrimenti difficilmente avvicinabile. Purtroppo a un prezzo molto alto. Troppo.
Mi sento prigioniera e vittima di una guerra alla quale io, come milioni di altri, mi sono opposta. Inutilmente. E ora mi sento doppiamente “sconfitta”.
Capisco le ragioni di chi si oppone all’occupazione ma non posso condividerne i metodi, l’uso dei civili, l’uccisione di altri iracheni, condannata anche dalle autorità religiose sunnite. Del resto i civili sono le principali vittime delle guerre moderne. Quelle fatte con le bombe intelligenti che poi tanto intelligenti non sono. Donne e bambini finiti sotto le bombe, sono loro la maggior parte delle vittime dell’invasione americana. Ripenso all’ospedale di Hilla, dov’ero andata durante i bombardamenti dell’aprile 2003, i feriti, decine e decine — oltre a una settantina di morti — ammucchiati persino nell’atrio, erano per la maggior parte bambini, anche di pochi mesi, donne e anziani, tutti colpiti da cluster bomb, le bombe a grappolo che per la loro stessa natura sono destinate a colpire civili. Si tratta infatti di ordigni che contengono ognuna circa duecento sub- munizioni, dette “bomblet”, grandi come la lattina di una bibita, i cui frammenti, esplodendo, colpiscono ovunque. E penetrando nel corpo provocano emorragie, spesso letali. Quelle che non esplodono subito — si calcola il 5 percento circa — restano sul terreno e diventano mine pericolose. Secondo il comando Usa Centcom, durante la guerra le truppe americane hanno lanciato 10.782 cluster bomb, equivalenti a circa due milioni di munizioni, come riporta un rapporto di Human Rights Watch, a Bassora, Kerbala, Uil- la e in popolosi quartieri di Baghdad. Come avevo potuto verificare allora sia a Hilla sia a Baghdad, nel quartiere al Biladati, abitato dai palestinesi, le vittime sono soprattutto donne e bambini. Del resto, civili sono la maggior parte delle vittime di tutte le guerre moderne. Quante sono quelle della guerra irachena? Non esistono cifre ufficiali. Contrariamente a quanto avviene per le vittime occidentali. Ai primi di settembre, il numero dei soldati americani uccisi in Iraq dall’inizio della guerra (nel marzo 2003) supera i millenovecento, oltre quattordicimila i feriti. Questi sono i dati ufficiali, ma altre voci indicano cifre di molto superiori, non a caso Bush impedisce di riprendere le bare che tornano negli Stati Uniti. I morti iracheni invece non si contano, non ci sono dati sulle vittime dell’attacco del novembre 2004 a Falluja e le stime sono divergenti. Secondo l’Iraq Body Count (Ibc), un’organizzazione britannica che ogni giorno pubblica sul suo sito web una stima delle vittime, tra il marzo 2003 e il marzo 2005 i morti civili sono stati 24.865, di cui oltre quattromila donne e bambini. I dati, contenuti in un rapporto (Dossier on Civilian Casualties in Iraq 2003-2005) curato dal professor John Sloboda e realizzato dall’Iraq Body Count insieme all’oxford Research Group, sono basati su quanto ricavato dalla stampa irachena e internazionale che cita fonti ospedaliere o degli obitori. Si deve quindi ritenere che le morti accertate siano sicuramente inferiori alla realtà. Inoltre, occorre aggiungere le vittime dei mesi seguiti alla conclusione della ricerca, che sono stati particolarmente sanguinosi.
La metà delle vittime riguardano Baghdad, dove vive un quinto dei circa venticinque miliòni di abitanti dell’Iraq.
(da “Fuoco Amico”, di Giuliana Sgrena, ed. Feltrinelli)