Il carcere

Quante volte, ultimamente, noi che stiamo “fuori” da brutti ambienti, come indubbiamente è quello del carcere, diamo giudizi , al volo, su fatti di sangue che tornano periodicamente alla ribalta. Il problema del sovraffollamento delle carceri, ma anche di un carcere che punisce e non rieduca, il trattamento disumano , di cui ho già parlato, dei centri di permanenza temporanei, mentre sparse un po’ in giro per l’Italia ci sono, come ha testimoniato “Striscia la notizia”, carceri ultimate e mai aperte.

Leggo spesso “Il Mattino di Padova”, in alternativa al filo-berlusconiano Gazzettino; ecco, se c’è una delle rubriche (oltre a quella delle lettere , che lascia spazio ai lettori, cioè, ai cittadini) che mi appassiona, ma anche mi fa male, mi colpisce al cuore, mi colpisce al cuore soprattutto immerso come sono in una non-cultura leghista, razzista, classista, come quella dell’ambiente che mi circonda, è quella delle lettere dal carcere. Lettere di chi si trova in un altro mondo, quello che le persone “normali” (o che hanno un buon avvocato) non conoscono. “Il Mattino” pubblica da qualche settimane alcune di queste lettere, sugli argomenti di attualità più recenti, come la nuova (vergognosa) legge sulla droga, o sui detenuti che, in regime di libertà, commettono reati gravissimi, come l’omicidio. Vorrei che mi deste il vostro parere (so che leggono questo blog anche dei miei apprezzati colleghi di lavoro), qui sotto riporto un paio di lettere che ho letto di persona sul quotidiano e che mi hanno particolarmente colpito, il resto lo trovate al sito www.ristretti.it .

Un carcere che punisce e non cura

Di fronte a delitti commessi da detenuti in misura alternativa, anche in carcere si prova sbigottimento e costernazione. Ma in carcere si aggiunge anche la consapevolezza che, a mo’ di “giustizia riparativa”, qualche tegola si abbatterà sulla testa di migliaia di altri poveracci che attendono da anni di poter trascorrere un week-end con i figli e la moglie o con la propria madre e che mai si sognerebbero di andare ad ammazzare qualcuno.

Quando si tratta di gravi fatti di sangue, in fondo, una dura reazione è tanto umana che anche in carcere la si accetta come ineluttabile. E anche chi fa informazione dal carcere è consapevole che, di fronte al dolore dei parenti delle vittime e all’indignazione pubblica, è inutile e forse dannoso argomentare con cifre e statistiche. Ma questa volta una cifra voglio farla: in Italia ci sono migliaia di persone che godono di misure alternative alla detenzione o di benefici (semilibertà, permessi premio etc.), e solo lo 0,24% commette reati durante queste misure, di fronte a una media del 3% che nel resto d’Europa è considerata “accettabile”.

Detto questo, a mio parere, almeno nel caso di Antonio Palazzo, che uscito dal carcere, dove scontava una pena per il tentato omicidio della fidanzata, ha ammazzato qualche giorno fa la sua ex convivente, qualcosa forse si poteva fare. Il nostro sistema penale prevede che il carcere debba anche rieducare, affinché chi termina la pena (e Palazzo prima o poi sarebbe comunque uscito), possa uscire migliore di quando è entrato. Se il sistema funzionasse, fin dal suo ingresso in carcere Palazzo avrebbe dovuto essere seguito costantemente da psicologi, psichiatri ed educatori, che nel corso di incontri frequenti avrebbero forse potuto accorgersi che il suo primo crimine non era un episodio determinato da fattori contingenti, ma nasceva da qualche tipo di “ossessione” o da un disturbo affettivo nei rapporti con le altre persone. Si sarebbe allora dovuto curare Palazzo per cercare di riportarlo alla normalità e di lenire la sua sofferenza, perché, non dimentichiamolo, è stata una atroce sofferenza che l’ha portato a questo esito autodistruttivo prima ancora che distruttivo. E questo intervento avrebbe dovuto essere mirato non a escludere Palazzo dai benefici di legge, ma ad evitare che al momento della inevitabile scarcerazione uscisse con gli stessi disturbi che lo avevano portato a tentare di uccidere.

La colpa è quindi degli psicologi ed educatori che avevano in carico Palazzo? No, perché educatori e psicologi sono talmente pochi che in molte carceri passano mesi prima che un detenuto riesca a parlare con l’educatore, che invece della quarantina di detenuti che dovrebbe seguire ne ha in carico magari 300. La colpa non è neppure dei magistrati di sorveglianza, pochi anch’essi, che dovrebbero dare la possibilità di reinserirsi nella società, sapendo che un reinserimento graduale aiuta a diminuire la recidiva. La responsabilità è soprattutto di chi ha costantemente ridotto le spese per le carceri, ha bloccato i concorsi per l’assunzione di operatori e non ha fatto nulla per contenere il numero dei detenuti, vanificando il lavoro quotidiano di quanti cercano di restituire alla società persone migliori di quelle che sono finite dietro le sbarre.

Quel nodo droga – galera che si stringe sempre di più

Le storie che arrivano dal carcere oggi sono sempre più spesso storie di persone tossicodipendenti. Il fatto è che la dipendenza rappresenta già una situazione difficile e delicata, se poi si aggiunge la necessità di viverla clandestinamente, è quasi inevitabile finire per commettere reati.

E intanto si continua a inventare spot pubblicitari che illudono e semplificano, come quello con il giovane tentato dalla droga che viene salvato dal padre che non lo trascura più, e anzi gli lancia il pallone simbolo di condivisione di qualcosa di “pulito”. E si propongono ancora mondi del bene e mondi del male: come se lo sport fosse immune sia dalle droghe classiche che da quelle specifiche per aumentare le prestazioni, e come se una famiglia attenta fosse la soluzione di tutti i mali di vivere.

Le tre testimonianze che seguono sono storie di droga, e quindi storie di carcere, dato che con le nostre leggi si va in galera, a meno che non si abbiano soldi, tanti soldi. Le raccontiamo perché vorremmo che il futuro riservasse meno carcere a chi già sta male, ma il timore è che la nuova legge peggiorerà le cose, con la giustificazione che non è vero che si mandano i consumatori in galera, li si vuole solo spaventare e costringere a curarsi.

Io ho avuto problemi sempre con alcol e droga

In famiglia eravamo sette fratelli. A casa mia i nostri genitori li vedevamo di sera e la domenica, perché andavano a lavorare per poterci mantenere. Mia madre era una che urlava sempre, ed era anche violenta, nel senso che te le suonava di santa ragione. Io le ho prese più di tutti, potrei dire che le botte erano il mio pane quotidiano.

Io ho avuto problemi sempre con la droga e ho anche bevuto tanto in certi momenti del mio passato, sono finita due volte in carcere per questo motivo, che ero ubriaca e avevo perso il controllo e non riuscivo a fermarmi, cioè a tenere a freno la mia bocca e il cervello, che aveva in quelle situazioni una specie di blackout. Comunque in famiglia c’erano dei problemi di alcolismo, ne aveva mia sorella più grande e questa cosa mi fece molto soffrire, beveva mio fratello, insomma un bel casino e tanti guai.

Non so se questa cosa ha sempre origine in famiglia, ma nel mio caso sì, e credo nella maggior parte dei casi. La famiglia, l’infanzia è fondamentale. Io sono convinta che la famiglia funziona se hai abbastanza serenità, calore, comprensione, presenza e dialogo. Una educazione che non riguardi soltanto le buone maniere, la scuola, una professione, ma che includa anche una crescita “dell’anima”. Invece, spesso dell’universo delle nostre emozioni, dei nostri sentimenti, non ci si cura, non fa parte dei progetti educativi, non è considerato parte integrante del nostro essere.

Io tendo tuttora a non voler raccontare della mia famiglia, faccio fatica perché ci sono cose di cui mi vergogno, perché uno vorrebbe essere orgoglioso sempre almeno dei genitori e dei fratelli. Anche se ho sbagliato, e quello non mi costa fatica ammetterlo, sono spesso fin troppo severa con me stessa, però vorrei che mi si illuminassero gli occhi quando mi si chiede della mia famiglia, invece mi viene un groppo in gola e corro ai ripari, a proteggerli ancora.

Mia madre è morta mentre io mi trovavo in carcere alla Giudecca, mi mancavano due mesi al fine pena. Piansi più di rabbia che di dolore, ho pianto perché mia madre se ne era andata via prima che potessimo chiarire un po’ di cose.

Mi sentivo fregata. Poi mi consolavo: i morti vanno a riposare in pace, era così che ragionavo, si perdona e si dimentica. Ma oggi so che si può perdonare, ma per dimenticare non ti basta una vita intera che hai a disposizione. E allora bisogna imparare a convivere con i ricordi che ti fanno sorridere e ti scaldano il cuore, e poi bisogna convivere anche con quelli che ti fanno del male. E bisogna cercare di comprendere che la sofferenza e il dolore aiutano, se non altro ti possono rendere più sensibile, più attenta e forte.

Christine W.

Non dimenticherò mai il terrore dei miei genitori per un figlio che non capivano più

Fa una strana sensazione pensare ai tanti anni che sono passati da quando ho avuto il mio primo rapporto da dipendente con le sostanze stupefacenti. Arrivo a fare queste riflessioni un po’ perché hanno riformato la precedente legge, che già non mi piaceva per niente, un po’ perché sono stato scarcerato da poco, dopo qualche anno trascorso in cella per reati legati alla tossicodipendenza, come al solito tanti reati di non elevata pericolosità.

Mi sembra incredibile che con questa nuova legge in realtà non cambi niente, anzi vengano aggravate solo le parti che più hanno creato isolamento, segregazione, clandestinità. Una legge che secondo me fa leva sull’angoscia delle tante persone colpite in pieno da un problema del genere. Non dimenticherò mai il terrore dei miei genitori per un figlio che non capivano più, assorbiti com’erano da un immaginario sulle droghe che inibiva qualsiasi possibilità di confronto lucido, e che era fomentato in alcuni casi proprio da chi gli doveva dare una mano. Ed io che stavo sempre peggio, e non riuscivo a venirne fuori qualsiasi cosa tentassi di fare, di testa mia o affidandomi quasi ciecamente agli altri.

La manovra più triste di questa nuova legge è senza dubbio quella nei confronti delle famiglie, alle quali si dice che realmente si vuole bene a questi ragazzi che sbagliano e che tutto sarà fatto per non fargli vedere la galera. Questo mi riempie soprattutto di rabbia, perché mi brucia ancora il ricordo del trattamento ricevuto, e delle dosi massicce di carcere che mi sono trovato addosso. Mi viene in mente la prima notte a Regina Coeli, già sapevo che i miei mi avevano mollato, almeno per un po’, ricordo quando mi sbatterono in crisi d’astinenza al terzo piano del letto a castello, che non riuscivo neanche a salirci. Al mattino, crollato dallo stress, convinto di vivere in un incubo, avevo creduto di svegliarmi a casa mia dopo un brutto sogno che ora finiva, ed ero sceso dal letto per andare a farmi un caffè: sono volato per tre piani rischiando di ammazzarmi.

E il pensiero era di farla finita subito, un bel laccio intrecciato, un cappio che scorresse bene, così la smettete di torturarmi: ma eravamo tanto pigiati che non c’era né lo spazio né la privacy per appendere la corda. Alcuni compagni ti facevano intanto capire che anche il suicidio era una rottura di scatole per gli altri, che poi c’era la solita farsa di indagine, che gli avrei creato problemi.

La dipendenza da una sostanza è stata più forte di me, ed io non sono stato in grado di difendermi da un sistema che ti mette all’angolo e non ti lascia possibilità diverse dal delinquere, e la responsabilità resta comunque tua, anche se hai lottato e non ce l’hai fatta.

Oggi la situazione peggiorerà, perché saranno tanti di più i ragazzi fuori dal giro criminale a trovarsi in carcere, ed avranno ancora meno strumenti per difendersi.

Stefano Bentivogli

Un calvario di litigi, di incomprensioni e di bugie

Dopo tanti problemi da adolescente, e di conflitti con i miei genitori, verso i 25 anni ho cominciato a far uso di sostanze stupefacenti. All’inizio non avrei mai creduto di andare incontro a tante sofferenze, pensavo che fosse una sfida legata alla voglia di sentirsi grandi e di assomigliare a quei modelli di persone che spesso i giovani cercano di imitare a tutti i costi, ma che poi si dimostrano sempre sbagliati.

Da principio assumevo la sostanza di tanto in tanto. Ben presto mi accorsi che ero entrato in un mondo tutto mio, dove non c’era spazio per nessuno che non fosse un mio simile.

Le cose andavano sempre peggio, iniziavo ad avere problemi nel relazionarmi con tutti, in particolare con la mia famiglia che mi vedeva sempre più assente, non partecipavo ad alcuna discussione che riguardasse l’ambiente familiare.

Mia madre era una donna protettiva con tutti noi, ed in particolar modo con me, e questa protezione andò aumentando quando seppe che mi facevo. Spesso leggevo nei suoi occhi il terrore di perdermi, e, anche se oggi me ne vergogno, ne ho approfittato, di questa sua debolezza, per avere soldi per comprarmi la droga.

A volte, senza aver commesso alcun reato, mi sentivo un “latitante”, ma non fuggivo dalle Forze dell’Ordine, fuggivo dalle persone care, e da me stesso.

Per i primi due anni ero ancora convinto di potere smettere quando avessi voluto.

In un periodo di totale smarrimento, chiesi alla mia ragazza di sposarmi. Oggi posso dire che lo feci forse per un estremo tentativo di smettere di drogarmi. Pensavo che con gli impegni del matrimonio sarei riuscito ad allontanarmi un po’ alla volta dalla realtà che ormai mi stava distruggendo.

La nascita di mia figlia rafforzò in me la volontà di smettere definitivamente, e decisi per il ricovero ospedaliero. Mi disintossicai e per alcuni mesi non mi feci.

Poi ci fu la ricaduta, e un calvario di incomprensioni e di bugie, che avevano preso il posto dell’amore. Lei cercò di sopportarmi, ma io ero inavvicinabile. Avevo ricominciato a farmi, e certe volte neanche la sostanza riusciva a colmare quell’enorme senso di disagio che mi portavo dentro, per ottenere un risultato mi bucavo anche dieci volte nell’arco delle 24 ore. Ma per farlo avevo bisogno di spacciare, di delinquere, e subito ci fu il primo arresto. Mia moglie perse ogni speranza di salvare il nostro matrimonio. E da lì credo di aver toccato il fondo, per poi cercare di ripartire e altre volte ricadere, perché il percorso per venirne fuori è durissimo.

E però è importante non essere isolati e abbandonati. Nel recupero di persone che hanno sempre vissuto tra violenza, reati, disagi, conflitti famigliari, vi possono essere delle ricadute, che devono sì essere segnalate e seguite, ma non punite a livello giuridico. Bisogna aiutare le persone a ragionare sui propri errori evitando di accrescere la propria frustrazione, e per farlo c’è necessità di un forte sostegno di tipo psicologico e non certo di galera.

Michele B.

Graziano Scialpi

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