Scalate, bugie e videotape: tutti i precedenti del cavaliere di Arcore

di Marco Travaglio

Ma no che non c’entra con la scalata al “Corriere”. Lui non c’entra mai niente. A sentir lui, a prendere sul serio le sue dichiarazioni e smentite degli ultimi vent’anni, lo si direbbe nullatenente. Un carmelitano scalzo. Invece è il politico più ricco del mondo e l’uomo più ricco d’Italia. L’apparente contraddizione la spiegò Indro Montanelli: «Berlusconi è un mentitore professionale: mente a tutti, sempre, anche a se stesso, poi crede alle sue menzogne».
«È un bugiardo sincero». Soprattutto negli affari. Dal calcio («Non prenderemo mai Nesta», «Il Milan non acquisterà Gilardino») all’alta finanza. Comincia molto giovane, a mentire. Negli anni 70, mentre costruiva Milano2 con l’Edilnord, non risultava in nessuna delle sue aziende e finanziarie. Tutte intestate a parenti, amici, teste di legno. Dallo zio Luigi Foscale ai Previti (padre Umberto e figlio Cesare) a una schiera di notai con mogli, casalinghe genovesi, elettricisti baresi e l’immancabile siciliano, parente di Buscetta. Particolarmente azzeccato l’amministratore della Palina Srl, società di transito usata per far passare 27 miliardi del 1979, di provenienza ignota, alle holding Fininvest: un tale Enrico Porrà, 75 anni, colpito da ictus,che veniva accompagnato in carrozzella a firmare gli atti nei consigli d’amministrazione.
È proprio nel ’79 che il neocavalier Silvio riceve la prima visita della Guardia di Finanza all’Edilnord. «È lei il proprietario?». «No, sono un semplice consulente esterno per la progettazione e direzione lavori di Milano2». In realtà è il proprietario unico della società, intestata a Umberto Previti. I militari bevono tutto e chiudono l’ispezione in meno di un mese con una relazione tutta rose e fiori, nonostante le anomalie valutarie riscontrate. Uno dei graduati, colonnello Salvatore Gallo, risulterà nelle liste P2. L’altro, capitano Massimo Maria Berruti, getterà l’uniforme un mese dopo per diventare avvocato e andare a lavorare in Fininvest. Condannato per i depistaggi delle indagini sulle mazzette alla Guardia di Finanza, ora è deputato di Forza Italia.
Nel 1990, grazie ai buoni uffici del Caf, viene approvata la legge Mammì: Berlusconi potrà tenersi tutt’e tre le tv in cambio della rinuncia al “Giornale” e alla pay tv (di cui può conservare soltanto il 10%). Ma lui aggira anche quella. Intesta il “Giornale” al fratello Paolo. E per Telepiù trova una corte d’imprenditori amici che rilevano il 90% delle sue quote. Una cessione fittizia – secondo i pm di Milano e Roma – con capitali berlusconiani. Il Cavaliere, divenuto premier, smentisce sdegnato: «Fininvest ha solo il 10% di Telepiù» (29-7-94). Ma il pool Mani Pulite scopre una tangente di 50 milioni ai finanzieri che indagano sulla proprietà della pay-tv. Per nascondere che cosa? Forse il reale proprietario della finanziaria lussemburghese Cit, che ha rilevato il 25% delle quote nel ’91? Il concessionario Luigi Koelliker, uno dei nuovi soci, racconta a Di Pietro che nel ’90 Berlusconi, «preoccupato di conservare il suo potere su Telepiù» in barba al nuovo tetto antitrust, chiese a un gruppo di amici di intestarsi ciascuno il 10% della società Telepiù: «Accettai a titolo di amicizia». E così fecero gli altri: Mario e Vittorio Cecchi Gori, Leonardo Mondadori, Luca e Pietro Formenton, Pietro Boroli, Bruno Mentasti, Massimo Moratti, Renato Della Valle, Mario Rasini (quello della banca omonima). Nel ’91 Koelliker decide di uscire, e viene prontamente sostituito dalla Fininvest con altri, fra il magnate tedesco Leo Kirch, anche se il suo nome continua a comparire nella compagine azionaria. A quel punto Berlusconi confessa: «Nessun fatto condannabile dal punto di vista morale e penale. La Mammì mi ha usato una violenza imponendomi di vendere entro 60 giorni il 90% di Telepiù. Ho chiesto ad amici la cortesia di sottoscrivere il 10% ciascuno, poi a 9 amici sono stati frettolosamente intestati gl’impianti e tutto il resto. Soci provvisori, in attesa di trovare investitori stranieri» (5-10-94). L’indagine però passa da Milano a Roma. Finirà nel nulla.
A fine ’94 il pool s’imbatte in una società off-shore che ha foraggiato sottobanco Craxi. Nel ’96 scopre che è di Berlusconi. Ma lui nega: «All Iberian? Mai conosciuta. Vi pare che, col mio senso estetico, avrei potuto accettare una società con quel nome?» (7-12-2000). I giudici, fino alla Cassazione, appureranno che è tutta sua: la capofila della Fininvest occulta, imbottita di miliardi (1200 in sei anni) per compiere ardite scalate in Italia e all’estero: 456 miliardi per acquisire l’86% della madrilena Telecinco tramite prestanomi (in barba all’antitrust spagnola, che consentiva di possedere fino al 25%); 637 per finanziare le teste di legno in Telepiù; 15 a Previti per quelle che lui chiama “parcelle” e invece, in parte, sono tangenti a giudici; 22 a Craxi dopo la Mammì; altri miliardi – scrivono i giudici – «per acquisti alla Borsa di Milano, eludendo la normativa Consob che impone di dichiarare nuovi pacchetti superiori al 2% di società quotate». Quali acquisti? Le scalate Rinascente, Standa, Mondadori.Il caso Telepiù finisce a tarallucci e vino. Ma in Spagna l’antitrust è una cosa seria, e anche il codice penale. Il 23 luglio 1997 il giudice Baltasar Garzòn apre un fascicolo su Berlusconi, Dell’Utri e altri manager Fininvest. Il Cavaliere giura che «è tutto regolare, mai superato il 25%». Ma Garzòn scopre i suoi prestanomi: il finanziere plurinquisito Javier de la Rosa, il solito Leo Kirch e – udite udite – Miguel Duran, presidente dell’Once, la ricca associazione spagnola dei non vedenti. Chi chiedeva il «blind trust», il fondo cieco, è accontentato.

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