La scomparsa dell’individuo ci minaccia

da un editoriale del “Mattino di Padova” del 26 luglio 2016

Alla fine di ogni tentativo di spiegazione dei fenomeni c’è lui, violento o pacifico, solare oppure enigmatico, talvolta sublime talaltra illeggibile, ma pur sempre titolare di precise responsabilità, che non può trasferire sulle spalle del suo prossimo. L’individuo. Appesantito dai suoi gravami, dalle sue frustrazioni, dal suo male di esserci, sempre più tiepidamente registrato dai radar di coloro che vanno di corsa, chissà dove. Poi succede qualcosa e cominciano le analisi, ma quelle politiche e sociologiche ignorano l’individuo, lo tengono sullo sfondo fino a considerarlo un semplice accessorio. Prese come sono dai grossi calibri, che fanno audience, si illudono di potere fare a meno di lui.

Piacciono gli scenari planetari, i contesti continentali, i movimenti delle grandi masse. Fondamentali, senza dubbio alcuno, tuttavia il terminale di ogni progetto rimane lui, l’individuo, sulle cui spalle finiscono per agire le fragilità personali e le intenzioni malevole di chi tiene in mano la trama del romanzo, facendo di lui una munizione, micidiale ma inafferrabile. Troppo piccola al cospetto delle pinze macroscopiche degli analisti e dei politologi.

Eppure è lui la misura di tutto, proprio i malintenzionati ne sono maggiormente consapevoli, oramai edotti su vantaggi e complicità che possono reperire nelle pieghe della vita di tutti i giorni, in quella normalità, presunta o reale, che permette al killer di camuffarsi fino a un attimo prima di liberare l’arsenale, fatto anche di armi improprie, come un camion o un’accetta, sorprendendoci. Oggetti che passano facilmente i cancelli dei guardiani, così poco abituati a frugare nei cestini dell’ordinario. Costoro dimenticano che fu un individuo, frustrato da una vita grigia e stagnante, ad accendere la miccia della seconda guerra mondiale.

Le ultime azioni di violenza perpetrate da persone singole oppure da nuclei molto ristretti, ci dicono che la benzina arriva spesso da biografie individuali tormentate, a cui fattori ideologico-religiosi possono fornire un pretesto nobilitante, un finalismo epico. Lo stesso pretesto, tuttavia, faticherebbe a trovare soldati da arruolare se non vi fossero singoli uomini, sufficientemente disperati da decidere che può valere la pena passare dal niente al tutto, anche a costo di immolarsi, lasciando tracce di sé in un mondo che mai avrebbe registrato quelle presenze, condannate ad accomodarsi all’uscita, in assoluto silenzio.

Questo è il punto, per noi occidentali, capire finalmente che società troppo asimmetriche, come accade nei circuiti elettrici a forte differenza di potenziale, saranno incubatori di orrori sempre più sofisticati, proprio perché non abbisognano di armi tradizionali, bastano gli oggetti di uso comune, resi micidiali dall’odio verso chi il suo posto nella vita pare averlo trovato.

Un autorevole politico sostiene che avrebbe dovuto essere la famiglia a fare prevenzione, nel caso dell’omicida di Monaco. Già, ma forse sarebbe meglio domandarsi chi dovrebbe incrementare le competenze di quelle famiglie, considerato che il concetto di welfare sembra una romantica vestigia del passato. Di risorse economiche per riscattare chi non ne possiede di culturali, di morali e di materiali ce ne saranno sempre meno, mentre è sicuro che, specularmente, la violenza aumenterà perché le anime nere del fondamentalismo islamico troveranno manovalanza da esaltare a buon mercato. Bisogna ripensare il rapporto delle istituzioni con la persona, che di esse è la ragione, se vogliamo coltivare qualche speranza di lasciarci alle spalle questo medioevo montante, a meno che non si voglia risolvere il problema incollando un poliziotto ad ogni cittadino.

Si notano interessi complementari tra registi che odiano, in modo aspecifico, tutto ciò che non possono controllare, e individui che la vita aveva messo all’angolo, per mille ragioni. Il ragazzino di Monaco, prima di essere abbattuto, così come il diciassettenne accettatore del treno di Wurzburg, anch’esso perito, si sono messi a urlare la loro rabbia contro il mondo, feriti dall’insignificanza, dal timore di essere niente, lo stesso che mina le sicurezze di ciascuno di noi, nessuno escluso.

I registi rimarrebbero privi di comparse se non avessero scoperto questa nuova benzina, il disagio socio-culturale di persone respinte che, a loro volta, odiano ciò che incrementa i loro sentimenti di inadeguatezza e si consegnano al migliore offerente. Piuttosto che perdere faccio perdere gli altri, tutti coloro che non mi vollero riconoscere. Un ‘tutti’ impersonale, che può contenere persino correligionari che si mischiano agli infedeli, responsabili dell’emarginazione, condividendone i vizi e la gioia di vivere. Il camion assassino di Nizza, al pari dei camion a gas nazisti, si è cimentato in una strage senza capo né coda, spezzando anche vite di piccoli musulmani, a riprova che in questo inferno la logica e la ragione sono andate in quiescenza.

Dal niente al tutto, dicevamo, un’aspirazione che i maestri della radicalizzazione rapida conoscono a meraviglia. Ne individuano i portatori, affondano la lama nel ventre molle delle fragilità, forniscono una risposta semplice al loro stato di emarginazione, presentano (a modo loro) quello che sarà il bersaglio, quindi aspettano che le circostanze siano propizie perché sanno che l’allievo agirà.

Gli eventi di Nizza, più che quelli di Monaco di Baviera, aprono uno scenario del tutto nuovo, perché nella normalità è complicato trovare nessi che consentano di anticipatore il comportamento lesivo dell’impiegato quasi senza macchia o del ragazzino non troppo diverso dai nostri, che sorride cordiale ai vicini. Come in un romanzo di Philip Dick, niente è come appare, l’alieno sembra umano e viceversa, la sorpresa potrebbe giungere in qualsiasi istante.

Qualcuno, con qualche grado di faciloneria, parla di servizi di intelligence presi in contropiede, ma è ingiusto biasimare giacché esplorare la normalità in ogni istante è semplicemente illusorio. Monitorare le intenzioni di un guscio chiuso è impensabile, almeno allo stato dei fatti. Bisogna pensare e spendere nella direzione giusta, quella della redistribuzione e del riscatto sociale, lasciandosi alle spalle l’ossessione del benessere per pochi, alleato fedele della violenza

Non è solo l’ISIS, è un mondo violento che genera violenza. Ovunque.

Ho trovato molto interessante l’articolo “La scomparsa dell’individuo ci minaccia” , insieme ad altri editoriali che recentemente sono apparsi sul Mattino di Padova ed altre testate nazionali. Quello su cui concordano in molti analisti ed opinionisti (certo, dovreste lasciar perdere le trasmissioni-spazzatura in tv delle reti Mediaset) é che il problema della violenza e del terrorismo non é più un problema che arriva da fuori ma che già si trova dentro l’Europa. E non solo. Proprio pochi giorni fa , dopo l’incidente ferroviario che è costato la vita a molte persone ho trovato particolarmente illuminante un commento che invitava a non cadere nel facile gioco delle (pur esistenti, ci mancherebbe) responsabilità individuali, perché se inizia a non funzionare più niente è perché il sistema in cui si lavora, o si vive, é profondamente sbagliato.
Volendo sintetizzare al massimo, il succo è che una società violenta crea violenza e che quando la competitività sfrenata genera maggiori diseguaglianze ed esclusione sociale (ovunque) diventa un fenomeno non più controllabile. Noi in Europa ora ci preoccupiamo (io nemmeno tanto, dato che la mia qualità della vita è sufficientemente compromessa a causa della mia CFS da farmi perdere già ogni giorno le piccole cose semplici, a costo zero, della vita, come le amicizie, gli affetti, la lettura di un buon libro, una sana risata in compagnia la sera) , ma gli USA vivono da sempre una mini-guerra civile interna di omicidi e serial killer, nonostante abbiano la pena di morte , proprio perché è la società ad essere organizzata in quel modo. Armi per tutti, zero welfare, se ti ammali sono cazzi tuoi…e se quello che si ammala si incazza, sono cazzi di tutti.