Dalla grande bellezza alla grande schifezza.

Lo scandalo della micidiale mistura chimica contrassegnata dalla sigla Pfas è solo l’ultimo anello in ordine di tempo di una perversa semina di veleni che hanno ridotto un paesaggio da favola a un ambiente da incubo. La cloaca sommersa scoperchiata dalle indagini del 2013 nella valle dell’Agno ha peraltro radici remote: già una trentina di anni fa Silvio Ceccato, vicentino di Montecchio Maggiore trapiantato a Milano, ricordava con amarezza e nostalgia quelle sue terre che da bambino aveva vissuto come un eden, per vederle poi devastate dalla furia di una produzione incurante di ogni concetto di limite. E che oggi ha elargito benessere materiale a tanti, ma malessere fisico e spirituale ad ancor più: non pochi hanno già pagato, su decine di migliaia di altri grava il timore e il sospetto di vedersi presentare un micidiale conto. Ma neanche chi abita nel resto del Veneto può sentirsi al riparo. Basta andare a consultare la mappa dell’Arpav, l’agenzia regionale dell’ambiente, per trovarsi di fronte a un quadro da brividi: sono 559 i siti potenzialmente contaminati. “Potenzialmente” significa, in concreto, che in quell’area è presente almeno un valore superiore alle concentrazioni soglia di contaminazione, tale da classificarla una zona a rischio. E considerando che i comuni del Veneto sono 579, in media quasi ciascuno ne ha una in casa; ma se si passa dalla statistica alla realtà, ci sono alcune province messe molto peggio di altre: per dire, Padova, Venezia e Vicenza messe assieme arrivano a 354, due terzi del totale. Una venefica sequenza di industrie, attività commerciali, discariche, dove una perversa confraternita di disinvolti inquinatori ha riversato ogni sorta di scarti senza preoccuparsi delle ricadute: spesso per risparmiare sui costi di smaltimento, non poche volte per lucrarci sopra. E c’è pure la pattumiera più simbolica di tutte, Porto Marghera, sul cui venefico impatto esistono le implacabili cifre dell’apposita commissione parlamentare d’inchiesta: nel periodo compreso tra il 2004 e il 2010, quindi in soli sei anni, sono state recuperate 140mila tonnellate di rifiuti pericolosi, 600mila di rifiuti ordinari, 90mila di rifiuti solidi da bonifica, e 370mila di rifiuti liquidi. I seminatori di veleni sono all’opera non da oggi né da ieri, ma da decenni. Risale addirittura agli anni Sessanta la vicenda delle ex cave d’argilla nell’area di Mestre usate per scaricarvi rifiuti industriali di Porto Marghera, e poi diventate aree di espansione urbanistica. È dei primi anni Novanta il nodo della zincheria di Rosà, vicino a Bassano, contro cui si mobilitò il tenace presidio permanente di San Pietro. E ancora, venendo avanti nel tempo: l’industria galvanica di Tezze sul Brenta, protagonista di uno dei casi più devastanti di inquinamento delle falde acquifere da cromo esavalente d’Europa; le elevatissime concentrazioni di manganese e ammoniaca nelle acque di falda della discarica di Pescantina nel Veronese; l’inchiesta che ha rivelato l’esistenza di una serie di discariche abusive in cui erano stati gettati perfino cadaveri riesumati dai cimiteri. E il Centro ricerche sulla criminalità della Cattolica di Milano ha assegnato alla nostra l’immondo primato della regione italiana con la più elevata presenza di ecomafie. Qui sì che si può dire: prima il Veneto. Ma ne faremmo volentieri a meno. È allo stesso tempo una tristezza e una vergogna, averne fatto il laboratorio di quello che un grande veneto come Andrea Zanzotto, con le sue geniali invenzioni linguistiche, aveva marchiato come «progresso scorsoio ». Già diversi anni fa, aveva avvertito che «salvare il paesaggio della propria terra è salvare l’anima e quella di chi l’abita». In troppi, divorati dall’auri sacra fames, hanno preferito svenderla.

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