Dal terrore al reincontro – il coraggio di riscattarsi

? lo sono Elena, un’insegnante di scuola superiore.

Ho iniziato il progetto “Il carcere entraascuolalescuoleentrano in carcere” circa dieci anni fa. Facevo la supplente in una scuola di Padova: Un giorno, in sala insegnanti trovai la rivista “Ristretti” e fui catturata dal progetto che alcunecolleghe seguivano. In seguito, lo proposi in un’altra scuola in cui ho insegnato.

Oggi i membri della redazione di Ristretti che ho conosciuto in quel periodo non sono più in carcere: Nicola, Marino, Elton, Maurizio, Sandro, Dritan, Andrea e altri ancora… sono tutte persone che ricordo con emozione e affetto, come le loro storie che ho avuto modo di conoscere.

La mia storia è molto semplice. Il secondoanno in cui, insieme al collegadi religione,abbiamo proposto il progetto a scuola, mentre ascoltavo con attenzione il raccontodi Nicolaeledomande degli studenti, incuriositi dal suo raccontodi rapinatore,qualcosa è scattato in me, così forte da to- gliermi il respiro, lì in classe.

Nella mia mente era riaffiorato un episodio precedente di qualche anno in cui io ero stata usata come ostaggio in una rapina in banca. Avevo rimosso l’episodio come qualcosa di bruttissimo che mi era capitato per sfortuna edi cui non volevo più parlare. Credevo fosse superato. Invece no. L’angoscia provata in quegli attimi, la pistola puntata al la testa, le grida, gli spintoni, la paura di morire per mano di un uomo che non sapeva nulladi meeper il quale io non contavo nulla: tutto riemerse con prepotenza, facendomi quasi esplodere il cuore dall’agitazione. Ricordo come fissai Nicolacon rancoreecomin- ciai a chiedergli che cosa aveva provato lui atenere un ostaggio. Gli chiesi se si era mai chiesto come stessero le persone usate durante le rapine. Ero furiosa. Lui rimase pietrificato e quasi senza parole. Ricordo solo che aliatine del l’incontro, faccia a faccia, quasi si scusò lui perquell’altro rapinatore che mi aveva usato. Ricordo che mi mise un braccio intorno alle spalle, quasi a proteggermi. Fu un’emozione forte, per entrambi.

Daqui nacque un confronto molto bello con lui e con altri detenuti che avevano commesso delle rapine, uno scambio in cui io e loro abbiamo messo in tavola i nostri sentimenti e la nostra umanità.

Ricordo quanto fui “piccola” in quell’occasione, lo che amo vivere nella legalità persi la ragione e non fui fiera di me stessa. Lì, dentro al la banca, dove tutti erano terrorizzati, io quasi mi nascosi e, nel mio cuore, mi augurai che prendessero qualcun altro per

scappare. Ecco, non importava chi fosse. C’era anche una signora incinta, lo mi augurai che prendessero lei, non me. Ma presero me ancora. Perfortunami lasciarono subito fuori dalla porta. E ancora, alle domande dei carabinieri io risposi ma nel mio cuore mi augurai che non li prendessero mai quei rapinatori. Temevo, nella mia ignoranza di allora, che avrei dovuto testimoniare contro di loro e avevo paura.

Ora ritorno sempre con grande emozione in carcere, partecipo al progetto e cerco di coinvolgere soprattutto quegli studenti più esuberanti o pieni di pregiudizi per fa re conosce re le sto ri e e I e umane vicissitudini che hanno portato i detenuti nellasituazione di dover scontare una pena. L’ultimo incontro,quiainizio maggio è stato molto toccante. Ricordo, in particolare, due parole: “sentimenti” e “sogni”. Due bellissime parole. E poi, le storie che abbiamo sentito hanno anche parlato della scuola, dell’importanza di trovare l’insegnante gi usto, che sapesse capi re quei bambini oquegli adulti in momenti difficili. Proprio perché, appunto, “nessuno cambia da solo”.

Mi sono spesso chiesta cosa provino quei delinquenti che uccidono senza pensare che la persona ammazzata magari ha una famiglia, dei figli, una moglie, una madre, un padre. Ecco, penso spesso al dolore di chi resta ad affrontare l’abisso pauroso della perdita di una persona cara. In quest’ultimo incontro ho avuto una risposta: spesso “non provano sentimenti”, ci hanno detto i detenuti, perché la legge della strada o di certi quartieri difficilissimi insegna a focalizzarsi su altro. Ma come fanno questi bambini, ragazzi, uomini a non provare sentimenti? Forse, mi sono detta io, è solo che sulla loro strada non hanno trovato qualcuno che li sostenesse, li capisse, a scuola, nella quotidianità. 0 forse, erano talmente circondati dal “brutto” cheeraimpossibilesognare. Ma come si fa a vivere senza sogni? Alcuni detenuti hanno detto che ora, dopo avere rielaborato la loro storia, si sono assunti le proprie colpe e non si sentono più vittime.

Ma io, durante rincontro, facevo fatica a non pensare che q uei bambini che erano stati un tempo, non fossero altro che delle vittimedell’ambienteorrendoin cui erano cresciuti, vittime di quellascuolachenon li aveva saputi capire, vittime anche a volte della brutalità di chi ha arrestato una madre portandola via a un bambino di 8 anni durante la notte. Cosa potrà nascere da tanta violenza e squallore?

Ricordo che in quel momento, dentro di me ho fissato a lungo quel detenuto che raccontava questi fatti e abbracciato forte il bambino chelui non era più,che non ha potuto essere. Ho pensa- toallasuainfanzia violata. Ho pensato ai miei figli: cosa avrebbero provato? I bambini sono sempre bambini siache nascano a Padova sia che nascano nelle squallide periferie di Napoli. Vittime? lo mi sono detta che quel detenuto era stato, da bambino, solounavittimadi un sistema del male che era molto più grande di lui e che lui da bambino non aveva saputo riconoscere e neanche aveva trovato i mezzi per difendersi.

Da insegnante ho anche apprezzato la grande importanza che tutti hanno dato alla scuola, allo studio comestru mento per elevarsi al di sopra del la bruttezza in cui erano cresciuti o in cui si erano imbattuti. Ricordo gli occhi vivaci e sorridenti di un detenuto e l’enorme gratitudine che si avvertiva lui provava nei confronti di una maestrache, in carcere, lo aveva avvici nato al la scuola da lui in precedenza tanto detestata e la dolcezza con cui questa gli avesse fatto capire che anche lui era un essere speciale e che poteva fare altro, molto di più edi meglio.

Miètornatain mente unafrase che sta attaccata alla lavagnetta magnetica della mia cucina, giusto perché nessuno di casa possa passare di lì e non leggerla. È una frase di Nelson Mandela che dice: «L’educazione è l’arma più potente chesi possa usare percambia- re il mondo», lo ci credo.

Dentro di me si è radicata l’idea che la redazione di “Ristretti” sia una scuola di vita, di umana fragilità e di coraggio: il coraggio del riscatto.E a ogni incontro con gli studenti propone sempre grandi insegnamenti, fa aprire gli occhi ai ragazzi nei confronti di quello che hanno e che spesso sottovalutano, come la scuola.

Elena B. insegnante

 

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