Falluja

Una cittadina di oltre duecentocinquantamila abitanti alle porte di Baghdad, sulla strada verso la Giordania. Questa posizione ha permesso ai fallujani di sviluppare i commerci e l’industria dei trasporti, oltre a quella delle costruzioni. Grazie alle fiorenti attività la città era infatti in espansione con quartieri fatti di case nuove e larghi viali, spesso polverosi. Questa città, nell’attacco del novembre 2004, è stata quasi rasa al suolo. Secondo fonti ufficiali del governo sono 36.955 le case colpite, tremilaseicento demolite, duemila bruciate, ventunomila occupate. Per quanto riguarda i negozi: milleottocento sono stati completamente distrutti, ottomilaquattrocento danneggiati, duecentocinquantotto le fabbriche bruciate. A questi danni occorre aggiungere, secondo il dottor Hafid al Dulaimi, direttore della commissione cittadina per i risarcimenti, sessanta asili e scuole colpiti e sessantacinque tra moschee e luoghi religiosi danneggiati. Non solo, tra gli effetti dei bombardamenti c’è anche l’inquinamento: l’acqua potabile è contaminata dagli scarichi fognari. I danni calcolati dall’ingegner Fawzi, anche lui della commissione per i risarcimenti, ammontano a seicento milioni di dollari, ma l’allora premier Iyad Allawi ne ha riconosciuto solo il 20 percento e, fino al giugno scorso, ne aveva assegnati solo il 10 percento. Secondo Mohammed Hadeed, medico di Falluja, sono trentunomila gli abitanti della città che aspettano ancora di essere risarciti. Molti tra coloro che hanno avuto la casa distrutta e non hanno un altro rifugio si sono accampati sulle macerie.

L’attacco di novembre contro Falluja faceva parte di quella “offensiva finale” che doveva, secondo gli Stati Uniti, permettere le elezioni del 30 gennaio 2005. Ma l’operazione “al Fajr” (l’alba) ha escluso non solo gli abitanti di Falluja, ma tutti i sunniti dalle elezioni. E dopo otto mesi la città resta blindata. Possono entrare solo i residenti attraverso sei varchi d’accesso supercontrollati e dopo un’accurata identificazione che implica attese di ore.

Solo l’80 percento degli oltre duecentocinquantamila abitanti è tornato. Anche per questo è difficile fare un calcolo dei morti e degli scomparsi.

L’offensiva finale americana era stata preceduta da altri pesanti attacchi, soprattutto nel mese di aprile, che invece del controllo americano sulla città avevano portato al suo isolamento. L’esercito statunitense voleva distruggere quello che in Iraq era diventato il simbolo della resistenza. Fin dall’aprile del 2003.

Durante l’avanzata delle truppe, dopo l’occupazione di Baghdad, il 9 aprile 2003, i capi tribali e religiosi di Falluja, preoccupati dagli effetti che avrebbe potuto produrre nella città la presenza di soldati stranieri, avevano composto una delegazione per incontrare il comando Usa. Alla fine era stato raggiunto un accordo: non ci sarebbe stata opposizione all’occupazione, ma i militari non sarebbero entrati nella zona abitata, evitando di turbare la vita della “città delle moschee”. L’accordo tuttavia non era stato rispettato:

il 23 aprile i marine occupano la scuola elementare al Qaid e quando, il 28 aprile, la popolazione manifesta contro una decisione che impediva agli studenti di andare a scuola, i soldati Usa sparano contro i manifestanti, provocando quattordici morti e tre feriti gravi. Due giorni dopo, un’altra manifestazione e altri tre morti e sedici feriti. Cominciava così la resistenza degli iracheni contro l’occupazione. Intanto i marine si installavano in una base — Camp Baharia — alla periferia della città, mentre proseguivano pattugliamenti e perquisizioni. Messi in opera soprattutto di notte:

i marine facevano irruzione nelle case, buttavano giù dal letto uomini, donne e bambini sotto la minaccia dei fucili. Poi i residenti venivano costretti a uscire per strada mentre i militari perquisivano. Secondo la denuncia di molti abitanti, quando questi rientravano soldi e gioielli erano spariti. Accuse che a volte sono state “giustificate” dagli stessi militari sostenendo che i soldi sarebbero serviti per finanziare la resistenza. E se i militari non trovavano chi cercavano — sospettati sostenitori dell’ex raìs e ora combattenti – arrestavano un loro famigliare, un figlio  o a volte anche una donna. Pratica che continua.

(dal libro di Giuliana Sgrena, “Fuoco Amico”, che ho appena terminato di leggere, ed. serie bianca Feltrinelli,dic. 2005)

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