La sovranità nazionale nell’epoca della globalizzazione

. Le leggi dello Stato dovrebbero, dunque, essere espressione degli atti della volontà generale. La situazione determinata dalla globalizzazione, al contrario, comporta una diminuzione della capacità decisionale degli Stati, essendo spesso le loro decisioni non più che semplici atti di accettazione e ratifica dei diktat dei mercati finanziari internazionali o degli organismi sovranazionali. Questa situazione mette in crisi la teoria moderna dello Stato, in base alla quale la sovranità emana dallo Stato-nazione ed è legittiinata dalla rappresentanza politica. Al contrario, gli Stati perdono progressivamente la loro sovranità e dipendono sempre di più, nelle loro decisioni, dai creditori internazionali cui devono rendere conto. Le vecchie burocrazie statali emerse dal Welfare State vengono di conseguenza sostituite dalle nuove burocrazie delle banche centrali e degli organi di pianificazione economica, lontane e praticamente inaccessibili per il cittadino comune.
In altre parole, la politica viene sostituita dall’economia e l’istanza economica può affermare il suo dominio saltando tutti i passaggi di mediazione politica che prima le erano necessari e che, al contempo. godevano di un relativo grado di autonomia da essa.
La sudditanza degli Stati nazionali rispetto ai mercati fa venir meno le fondamenta dello Stato di Diritto e riduce la volontà generale – che nelle Costituzioni dovrebbe essere assurta a norma giuridica – a un pallido riflesso di decisioni prese altrove. Si tratta di una vera e propria crisi di legittimità dello Stato di Diritto, dovuta all’emergere di luoghi decisionali altri rispetto agli Stati: luoghi di natura extrapolitica, come le Banche centrali, il Fondo Monetario internazionale, la Banca Mondiale e il Wto.
Per rispondere a questa crisi di legittimità dello Stato di Diritto e ridare nuovamente protagonismo al la politica sull ‘economia, è necessario andare oltre i principi astrattamente formali cha stanno alla base della democrazia rappresentativa. Bisogna pensare a nuove forme che siano adeguate alle concrete e attuali trasformazioni economiche, tecnologiche e sociali.
[…]
La democrazia partecipativa, lungi dall’essere un elemento complementare alla democrazia rappresentativa, e di conseguenza uno strumento per la riforma e la valorizzazione di quest’ultima, deve trovare il proprio fondamento costitutivo nella conflittualità sociale. Di fronte alla pervasività del modo di produzione capitalista che, nella fase della globalizzazione neoliberista, cerca di appropriarsi dell’intera vita delle persone, costringendo ciascuno alla dimensione della solitudine competitiva sul luogo di lavoro e nelle relazioni sociali, la democrazia partecipativa deve porsi l’obiettivo di ricostruire spazi pubblici e ricchezza collettiva come elementi di resistenza nell’immediato e come prefigurazioni di un altro modello sociale per il futuro.
Senza questo ancoraggio alla conflittualità sociale, le esperienze partecipative rischiano di divenire strumenti di concertazione sociale, adatti a riprodurre i meccanismi di stratificazione del potere, senza preludere a nuove fòrme di organizzazione sociale.
Negli ultimi anni, in Italia, si sono moltiplicati gli appelli e i riferimenti all’esperienza del Bilancio Partecipativo di Porto Alegre. Centinaia di amministrazioni locali di centrosinistra hanno inserito nel proprio programma il richiamo alla democrazia partecipativa. In una serie di realtà è stato effettivamente avviato un processo di sperimentazione di forme di democrazia partecipativa o quantorneno una riflessione seria sulle pratiche possibili di partecipazione. Sono nate associazioni come la “Rete del Nuovo Municipio” o “Dernocratizzare radicalmente la democrazia”, che stanno provando a mettere in rete esperienze, riflessioni, pratiche differenti, ma unite dall’intento comune di una innovazione reale delle forme di gestione della cosa pubblica.
Accanto a queste realtà, però, è proliferata una serie di richiami e celebrazioni verbali. formali o propagandistiche, cui, spesso, nelle diverse amministrazioni di centrosinistra, non corrisponde né una reale sperimentazione né la volontà stessa di adottare delle pratiche partecipative.
Questo ha contribuito a ingenerare una grossa confusione su cosa può legittimamente essere inteso per democrazia partecipativa. Forme di consultazione della popolazione, come il voto elettronico, l’espressione di preferenza secca su opzioni già precostituite e immodificabili, o addirittura semplici consultazioni del mondo dell’associazionismo già esistente su specifici temi, prese isolatarnente e non inserite in un insieme organico di livelli di partecipazione e consultazione, sono state propagandate per Bilancio Partecipativo. Al di là dei travisarnenti e della confusione tra procedimenti di consultazione della popolazione su singoli terni, che di per sé non hanno nulla di negativo, e un processo di partecipazione che arrivi a una definizione comune e condivisa di decisioni e priorità, con una crescita di consapevolezza della collettività, è lo stesso Bilancio Partecipativo come strumento a esporsi a impieghi di natura differente e divergente. Da questo punto di vista, la prospettiva generale in cui si inserisce il ricorso a una pratica di Bilancio Partecipativo è un elemento determinante.
Il Bilancio Partecipativo. infatti, può facilmente diventare uno strumento di concertazione e costruzione del consenso attorno a una amministrazione, a una lista elettorale o a uno schieramento di partiti. Può, cioè, diventare un mezzo per appianare i confìitti, prima che esplodano, per distribuire le risorse esistenti senza mettere in luce le contraddizioni sociali ed economiche presenti, per mostrare che tutto ciò che era possibile fare è stato fatto e quindi è illogico chiedere di più.
Per evitare che la partecipazione al bilancio si trasformi in una pratica concertativa è necessario, in primo luogo, partire dalle potenzialità di messa in discussione dell’esistente che questa contiene. Gli organismi del Bilancio Partecipativo, le assemblee territoriali e tematiche e in generale tutte le istanze di partecipazione dal basse non devono necessariamente porsi in maniera armonica e complementare rispetto all’amministrazione locale e agli organismi dellE democrazia rappresentativa. Un ‘amministrazione, al contrario deve sapersi esporre alle critiche, deve essere disponibile a essere messa in discussione e modificata dall’espressione di confluttualiti proveniente dalla partecipazione popolare.

dal libro di Raul Pont, “la democrazia partecipativa”

Lascia un commento